Voucher, nuova frontiera del precariato. O no?

Voucher, nuova frontiera del precariato. O no?

di Paolo Cagol

Ci risiamo, è il solito dibattito all’italiana: o con noi o contro di noi, fazioso, di parte, a volte poco pertinente, all’occorrenza strumentalizzato e quasi mai utile a trovare soluzioni.

Efficace invece a polarizzare e radicalizzare opinioni, alimentare malcontenti, generare aspettative; è l’arte del comunicare disinformando, informare confondendo, elaborare senza analizzare. In alcuni casi senza vergogna a palesare incoerenze e ipocrisie.

Parlare di voucher significa raccontare storie lavorative di persone e famiglie; occorre farlo con attenzione, competenza e rispetto. Ma significa anche ragionare su complesse dinamiche economiche e di regolazione del mercato del lavoro, che non possono essere trattate con approcci ideologici o banali semplificazioni.

Le ipotesi più radicali avanzate per risolvere gli odiosi casi di abuso non forniscono soluzioni al problema sotteso e non prendono in considerazione scenari alternativi, oggetto invece di alcune interessanti esperienze europee. Francia e Belgio e, pur con diversi strumenti e approcci, anche la Germania, hanno saputo ad esempio integrare il «problema» del lavoro occasionale con efficaci politiche attive del lavoro e di solvibilità della domanda in settori ad alta incidenza di lavoro sommerso come quello dei servizi socio assistenziali, nei quali il lavoro nero raggiunge livelli del 70% in Italia e Spagna, 45% nel Regno Unito, 30% in Francia e del 15% persino nella legalissima Svezia.
In particolare l’esperienza francese dei CESU dèclaratifs, proprio nel campo dei white jobs - servizi sanitari, sociali e alle persone - è un esempio interessante di come si possano efficacemente affrontare alcuni punti nevralgici del lavoro e del welfare europeo, come tenteremo di spiegare nei prossimi post.

Maggior partecipazione attiva al mercato del lavoro, nuova occupazione (in particolare femminile), opportunità di conciliazione vita-lavoro, coesione sociale e crescita economica sono gli obiettivi su cui la Commissione Europea, a partire dagli anni 2000, ha incoraggiato l’adozione di politiche di solvibilità sul modello dei voucher, gli stessi cui si ispirava, nel 2001, il «Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia» di Marco Biagi.

Trascurare tutto ciò nel dibattito recentemente riportato alle attenzioni dal referendum abrogativo promosso dalla Cgil impedisce di far tesoro delle tante analisi ed iniziative già elaborate dentro e fuori il Parlamento e che condividono l’obiettivo di un riordino dell’attuale normativa sui buoni lavoro, oggetto di tante (troppe e senza criterio) liberalizzazioni nel corso degli anni; riordino che persino la stessa Cgil propone nella sua «carta dei diritti universali del lavoro».

Che fare dunque? Si parta dai tanti dati raccolti, prezioso database per indagare sui possibili abusi e sui quali servirà un diffuso ed efficace lavoro ispettivo e sanzionatorio. Il problema non sta però solo nei controlli, ma nella forma di una norma che a colpi di deregulation ha perso la sua originale impostazione e coerenza, aprendo ampi margini di elusione e abuso.

Prima di confrontarsi su come modificarli, serve quindi domandarsi per cosa li vogliamo usare. Combattere il lavoro nero, concedere più flessibilità alla prestazione lavorativa in alcuni settori, ridurre il costo del lavoro, incrementare l’offerta di servizi, favorire l’inserimento lavorativo di studenti, casalinghe e pensionati, creare nuova occupazione?

Obiettivi non sempre compatibili e che non ci si può illudere di perseguire contemporaneamente. Servono dunque priorità e scelte, rispetto alle quali realizzare gli strumenti più efficaci.
In questo quadro il legislatore offre attraverso le agevolazioni previste per il welfare contrattuale un’utile strumento da valorizzare. Con il rinnovo del 26 novembre scorso il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici introduce i flexible benefit: buoni pagati dalle imprese per servizi di natura socio assistenziale, cura e conciliazione vita-lavoro che diventeranno sempre più importanti con i modelli organizzativi necessari al funzionamento della moderna industria 4.0.

In Trentino (poco meno di 11.000 addetti nel comparto), questo istituto veicolerà a regime risorse per 2,2 milioni di euro l’anno, senza contare ciò di cui volontariamente il lavoratore potrà usufruire convertendo i premi di risultato erogati dalla propria azienda in servizi di welfare (recuperando il 100% degli oneri contributivi e fiscali): per una sola azienda come DANA (circa 700 dipendenti negli stabilimenti di Arco e Rovereto), parliamo di cifre potenzialmente dell’ordine di 1,5 milioni di euro l’anno.

Perchè quindi non provare, una volta tanto, a ragionare in termini di opportunità…?

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