Politica debole, democrazia debole

Politica debole, democrazia debole

di Pierangelo Giovanetti

Una delle paure che più vengono brandite e sventolate in vista del referendum di domenica prossima è il timore della «politica forte». Si dice che le riforme diano troppo potere al politico eletto, e per questo va resa frammentata e ostacolata la sua azione, annacquando ogni potere decidente.

Nemmeno il controllo, che in democrazia viene affidato all’opposizione, e la possibilità di alternanza alle elezioni successive, sono ritenute due forme di bilanciamento adeguate per fare da contrappeso all’azione del politico eletto che ottiene la maggioranza in parlamento. Serve frenare, ritardare e osteggiare le decisioni in modo che, nella mancanza di decisioni, si possa contrattare dentro il sottobosco assembleare vantaggi per tutti, anche per le opposizioni, le lobby, le minoranze urlanti e organizzate, a spese della collettività e del bene.

L’opposto della «politica forte» non è la «democrazia forte», ma la politica debole, cioè la democrazia debole. Oggi l’eletto nelle istituzioni che si assume l’impegno di governare, avendo ottenuto il consenso più alto, è l’unica forza democratica di cui il cittadino può disporre per frenare e regolare gli altri poteri. Se la politica è debole, sono i «poteri forti» a comandare. E in un mondo che è sempre più globale, l’unico potere che può contrapporsi alla finanza internazionale, alle multinazionali che esercitano ruoli determinanti sulla salute della popolazione (l’aggregazione Bayer e Monsanto ne è solo un esempio), ai colossi di internet e dei social network come Apple, Facebook, Google e Amazon, è solo la politica. Che è espressione democratica dei cittadini, a differenza di ogni altro «potere forte», e risponde delle proprie azioni direttamente ai cittadini nelle elezioni successive.

Soltanto una «politica forte» può fronteggiare i nuovi influenti interpreti mondiali della nostra vita, cercando di regolarne le pressioni, ponendo vincoli e limiti, difendendo la parte più debole e meno organizzata della società.

Di certo non la «politica debole», che non è in grado di governare con sufficiente durata, è facilmente preda delle lobby per la sua fragilità e persistente delegittimazione da parte dei professionisti dello sfascio, è continuamente sottoposta a ricatti e veti da parte di microminoranze organizzate, di micro-centrali di interessi anche interni al parlamento, di burocrazie ministeriali e apparati statali strutturati in «contropotere».
Ecco perché la politica, con tutti i suoi limiti e la sua degenerazione a cui assistiamo quotidianamente, con tutti i difetti e le magagne dei suoi protagonisti, è l’unica difesa di cui il cittadino dispone di fronte ai nuovi poteri forti, che ne insidiano la libertà e la determinazione del bene comune. L’illusione che questa difesa possa essere esercitata solo dal diritto, dal ricorso, dai gradi di giudizio, dall’affermazione di principio non sustanziata poi da azione politica conseguente, non è sufficiente a dare forza di cambiamento al cittadino, di progettazione del domani, di costruzione di una società migliore per sé e per i propri figli.
Al massimo serve a bloccare, a stoppare, a impastoiare ulteriormente incancrenendo i problemi, ma non aiuta a trovare le soluzioni.
 Purtroppo o per fortuna, a questo serve la politica, la buona politica. Ma non è buona politica la politica debole. Questa può solo finire prigioniera di potentati forti, di burocrazie istituzionali ammantate magari dal volto di alti funzionari europei, di lobby della spesa pubblica clientelare. Non è un caso se nei giorni scorsi l’Economist, il settimanale britannico espressione dei mondi della finanza della City, ha auspicato la caduta del governo italiano con il No al referendum, per insediare da Bruxelles un governo tecnico a Roma, un esecutore silenzioso delle politiche decise dalle varie troike, ossequiente dei conteggi rigidi dell’austerity, con l’idea sottesa che gli italiani sono incapaci di fare le riforme, le quali occorrono invece essere imposte dal Nord del rigore puritano.

Se oggi l’Italia è ridotta a un debito pubblico pari a oltre il 130% del pil del Paese, se annovera ritardi quasi incolmabili in infiniti settori cruciali della vita quotidiana dai trasporti alle infrastrutture, dalla gestione del territorio alla lotta alla criminalità, all’onnipotenza paralizzante della burocrazia, alla lentezza della giustizia civile, è solo perché in questi decenni ha dovuto fare i conti con una «politica debole», continuamente disposta al ribasso per tirare a campare con governi perennemente instabili e ricatti da parte dei partitini minori e delle lobby esterne, cammuffate anche da parti sociali.
Con la politica debole le responsabilità si diluiscono, la coerenza delle scelte evapora, gli apparati tecnici si dilatano acquisendo funzioni e spazi impropri.

Le lobby hanno maggiore possibilità di accesso dentro gli interstizi di un tessuto governativo sfilacciato e frammentato, continuamente soggetto a dover raccattare voti in parlamento per stare in piedi.
Così nessuno è mai responsabile di niente, e il cittadino si imbestialisce sempre di più, perché non sa nemmeno a chi attribuire le colpe della mancanza di risposte ai propri bisogni, e quindi si sfoga nella rabbia, nel qualunquismo disfattista, nella protesta astiosa e indiscriminata «contro tutto». È questo il terreno fecondo del populismo e dell’antipolitica, che sono figli della politica debole.
Del resto, tutte le dittature del secolo scorso sono nate da democrazie deboli, come reazione alla politica assembleare della repubblica di Weimar in Germania, all’afflosciamento delle istituzioni liberali in Italia, alla incapacità di affrontare la crisi economica del 1929 nella Spagna di Primo de Rivera.

In Italia la voragine del debito pubblico ha le sue origini proprio nella politica debole che ha risolto il problema della governabilità del Paese accedendo a piene mani alla spesa pubblica. L’Assemblea costituente, infatti, aveva scelto di non affrontare il problema della governabilità, nella paura reciproca - democristiani e comunisti - che l’altro vincesse, e quindi era meglio non metterlo in condizione di governare.
Supportati dalla metà degli anni Sessanta in avanti da qualche sentenza della Corte costituzionale, che aggirò la ratio dell’articolo 81 della Costituzione voluto da Einaudi sdoganando il ricorso al debito pubblico, i fragili governi della Prima Repubblica (spesso in accordo con l’opposizione) ricorsero al deficit facile e alla spesa pubblica come strumento di mantenimento del consenso, trasformando la democrazia italiana in partitocrazia clientelare. Invece di assumersi la responsabilità di decidere, diedero vita ad una «stabile» politica debole in cui la pace sociale veniva assicurata grazie al foraggiamento dei principali centri di potere e di interesse, a cominciare dalle richieste di confindustria e sindacato, assorbendo milioni di persone nel pubblico impiego o nel parastato, o sussidiando ogni forma di carrozzone industriale.

Questi sono i frutti della «politica debole» e senza idee, che non assume decisioni. L’unico antidoto è il ritorno di una politica che si assuma la responsabilità delle proprie scelte, e che prenda decisioni chiare, su cui poi - nel caso - punirla alle elezioni successive.
Pur con tutti i suoi limiti e le sue incongruenze frutto della necessaria mediazione parlamentare, pur non perfetta e sempre migliorabile, la riforma su cui andremo a votare domenica tende a questo. Per lo meno ne è un primo passo in quella direzione.

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