Il Sait, la Coop e i tanti errori fatti

Il Sait, la Coop e i tanti errori fatti

di Pierangelo Giovanetti

Dopo anni in cui i problemi sono stati negati e rimossi ritardando colpevolmente qualsiasi soluzione, finalmente nel mondo Coop si comincia a prendere atto della realtà, cercando vie d'uscita. Il nuovo direttore del Sait, Luca Picciarelli, a cui va dato merito di parlare con chiarezza (virtù assai rara nella Cooperazione trentina), ha dichiarato all'Adige che i valori cooperativi non si mantengono senza efficienza, il Sait non sta in piedi se non recupera produttività, la politica degli immobili sopravvalutati ha portato giocoforza a pesanti minusvalenze, ricordando che non si può distribuire valore economico e sociale ai soci se non si è capaci di stare sul mercato e fare azienda.

Parole mai sentite da quelle parti negli ultimi 15 anni, quando la crisi costringeva a rinventarsi, quando diventava urgente ripensare il modo di essere e fare cooperazione, quando il peso delle inefficienze, delle megalomanie immobiliari, delle pletoriche assunzioni spesso clientelari rendevano di bilancio in bilancio insostenibile la cooperazione trentina.

Ci si nascondeva spudoratamente sotto il nome di don Guetti per coprire i propri fallimenti, si continuava in maniera autoreferenziale a farsi belli in manifestazioni autocelebrative pagate dall'ente pubblico, si rispondeva alle sollecitazioni e agli editoriali di questo giornale ringhiando furiosamente, minacciando rappresaglie, infastiditi da qualunque critica o invito a cambiare. Durissime le reazioni quando l'Adige scrisse che il quarto mandato di Schelfi era un errore grave (a dir la verità anche il terzo), e occorreva cambiare classe dirigente.

Adesso partono i licenziamenti a centinaia, e a pagare sono i lavoratori. Troppo a lungo non si è voluto guardare in faccia alla realtà, spinti dalla smania di tener strette poltrone e indennità, mal consigliati da fondazioni come Euricse finanziate con oltre 10 milioni di denaro dei contribuenti, le quali, invece di aiutare a comprendere la realtà e spingere a cambiare, hanno fatto solo da trombone e da grancassa al gruppo dirigente, da cui traevano riconoscenti prebende. Ora che le scelte sbagliate degli ultimi quindici anni appaiono nella loro cruda realtà, s'invoca ancora una volta l'ente pubblico per pagare a pie' di lista gli errori di una classe dirigente che dovrebbe in toto farsi da parte. Hanno ragione i lavoratori venerdì in sciopero a dire che sono loro a pagare gli sbagli e le scelte malfatte di chi in questi anni si riempiva la bocca dei «valori», ripetendo pomposamente di essere meglio del privato perché la cooperazione garantisce il lavoro e non cerca il profitto, provando così a spiegare i conti in rosso, gli ingenti interessi per i debiti, la perdita di quote di mercato.

In realtà nello stesso tempo i gruppi concorrenti, da Poli a Dao-Conad (questi anch'essi figli della cooperazione), continuavano a crescere nonostante la crisi, a guadagnare quote di mercato, ad assumere personale. Solo il Poli dà lavoro a oltre 1.700 dipendenti, mentre Dao-Conad è cresciuta del 7% di fatturato nell'ultimo anno. Per giustificare inefficienze, rigidità, mancanza di flessibilità e sbagli strutturali a cominciare dalla cattedrale di via Innsbruck, costata 66 milioni e che a entrarci pare un ministero tanto è sproporzionata e inutilmente pesante nell'organizzazione, si è evocato a sproposito il piccolo negozio di vallata. Noi siamo in perdita - è stato detto - perché garantiamo l'apertura dei negozietti di paese, indispensabile presidio sociale.

In realtà, come i fatti testimoniano ed è ben risaputo nel mondo della cooperazione, è vero il contrario. Sono le Famiglie cooperative a tenere in piedi il Sait e i superstore che anche quest'anno hanno perso un altro 4% di fatturato. Invece di avere servizi migliori e merce a prezzi più concorrenziali, i piccoli negozi e le famiglie cooperative sono costretta pagare dazio per chi sognava in grande, di far la concorrenza ai privati con le faraoniche strutture e le assunzioni pletoriche, invece che dotarsi di strutture snelle e flessibili (e assai meno costose) per garantire maggiore convenienza alle piccole e medie famiglie cooperative di vallata. Salvo poi stracciarsi le vesti scandalizzati se le famiglie cooperative si staccavano dal Sait e sceglievano altri cooperatori, in grado di servirle meglio e in maniera meno esosa.

Purtroppo non è stato parlato chiaro nemmeno ai dipendenti, spiegando che certi modelli di organizzazione «pesante» non funzionano più, e a volte per garantire il lavoro è meglio dar vita a strutture «leggere», che poi si avvalgono di servizi esterni, secondo le necessità e l'andamento del mercato. Del resto, sia Poli che Dao hanno fatto così, puntando invece a economie di scala, a centrali di acquisto più vantaggiose per gli associati, a flessibilità attente alle esigenze del consumatore intuendo prima di altri come cambiare e quali servizi offrire al cliente consumatore. Non si spiega altrimenti come, in piena deflazione, la rete distributiva regionale di maggiori dimensioni è aumentata lo scorso anno di cinque strutture di vendita, con Conad che ha aperto tre nuove realtà e ne ha acquisite altre due. E ora Dao, la centrale cooperativa trentina di Conad, ha avviato due nuove aperture a Malé e Dro.

Tutto questo nonostante la guerra dei prezzi e l'alta concorrenza del mercato, i due argomenti giustificativi che il sistema che fa capo a via Segantini usa per spiegare le proprie non lusinghiere performance. E nemmeno sta in piedi l'analisi mediocre che si è tentato di far circolare dalle parti di Euricse, sostenendo che i guai della cooperazione sono solo colpa della crisi, perché le coop devono difendere i bisogni dei soci e massimizzare i servizi. Come s'è visto, i soci vanno invece a fare la spesa da altre parti, dove evidentemente si trovano meglio, e nonostante la crisi fanno crescere i gruppi cooperativi concorrenti.

Ora il bagno di realtà a cui la Cooperazione - dalla Federazione al Sait alle Casse rurali - è stata costretta, oltre a far piazza pulita di tanta melassa retorica di autocompiacimento che probabilmente in questi anni ha fatto rivoltare nella tomba il povero don Guetti, fa sperare che si possa ripensare il modello cooperativo rendendolo sì sociale e mutualistico, ma dentro una sostenibilità capace di generare valore, anche economico. Va ripensato seriamente il ruolo del socio (con quindici casse rurali trentine dentro un gruppo nazionale, che ruolo avrà il socio?). Vanno individuati criteri diversi di selezione della classe dirigente.

Occorre superare una volta per tutte il retropensiero statalista e protezionista ancora forte fra i vertici cooperativi, secondo cui deve essere la Provincia a risolvere i problemi della Cooperazione, garantendo risorse o ponendo ostacoli agli altri competitor. Vanno smobilitate le sovrastrutture inutili o ingigantite in maniera spropositata (ma servivano proprio 180 dipendenti per la Federazione?). E soprattutto va usato un linguaggio chiaro, sia verso i dipendenti, i soci, ma anche verso l'opinione pubblica, dimostrando con i fatti che non è più vera l'idea assai diffusa che gli errori della cooperazione non hanno mai un responsabile, ma a pagare è sempre il contribuente, che si tratti di cantine sociali o consorzi del latte che finiscono male. Forse così potrà uscire una pagina nuova per la Cooperazione trentina.

p.giovanetti@ladige.it
Twitter: @direttoreladige

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