Stragi, la reazione che manca ancora

di Pierangelo Giovanetti

L'attentato di Tunisi di mercoledì scorso, il massacro nelle moschee dello Yemen di venerdì, e prima ancora la strage di cristiani domenica nelle chiese del Pakistan, sono la tragica conferma che la guerra dell'islam radicale e fanatico è in pieno corso, e va fermata. In ogni modo. È una guerra spietata, sanguinosa, totale, accecata e alimentata dalla follia fondamentalista che non si arresta nemmeno di fronte alle crudeltà più efferate, neanche davanti alla morte di altri fratelli musulmani, nemmeno quando l'assalto è portato nel cuore di una nazione di religione maomettana come la Tunisia. Anzi, è ancora più virulento, perché Tunisi è un modello (l'unico?) di primavera islamica riuscita, di pacifica e democratica convivenza di popolo, di integrazione fra tradizione musulmana e valori occidentali.


E per questo più temibile, e da distruggere. L'obiettivo di tali stragi, l'arma del terrore, il grido di conquista e di distruzione lanciati dai macellai dell'Isis non sono verso chissà quali nemici o popoli lontani. L'obiettivo siamo noi. È l'Italia in primo luogo, e l'Europa tutta. È a noi che sono rivolte quelle stragi, quasi un avvertimento, una minaccia perpetua che destabilizza l'intero Medio Oriente, e ormai si è allargato all'Africa fino alla Somalia e oltre, e ha contagiato l'intera fascia mediterranea del Continente, fino alla Nigeria. Da una parte abbattere qualsiasi sistema, governo, paese in cui l'islam si coniughi con laicità, tolleranza, libertà, o semplicemente rispetto degli altri. Dall'altra, nella destabilizzazione che si sta estendendo a macchia d'olio nel Mediterraneo e in tutto il Medio Oriente, reclutare nuovi proseliti attratti e sedotti dal sangue che scorre e dalle gole tagliate, e dalla asserita purezza e totalità del radicalismo estremo.

Che è tale perché non ammette libertà, e sopprimerla è il suo intento esistenziale e finale. Il tutto, con un unico obiettivo: arrivare in Europa, iniziare dall'Italia, colpire Roma, simbolo della cristianità.
Di fronte a tale guerra del terrore in atto, una guerra islamista totale, stupisce l'ancora troppo debole reazione dell'Italia, l'assenza di piena consapevolezza di quanto sta avvenendo, la mancanza nell'opinione pubblica prima ancora che nei suoi governanti della percezione del pericolo esistente, e di quanto occorra fare. Quasi che il sangue e l'orrore che i Tg della sera portano ormai quotidianamente nelle nostre case sia un qualcosa di lontano, che riguarda altri. Tutt'al più qualche incauto turista che si è inoltrato a visitare i mosaici del museo del Bardo, invece di starsene tranquillo a casa.


Questo spaventa in quanto sta succedendo. L'idea che, se proprio l'Isis arriverà alle porte del Paese, ci sarà qualcuno a difenderci, qualcuno che li fermerà. E comunque non succederà. Invece di reagire rispondendo con il coraggio di un Paese pronto a difendersi, culturalmente prima che politicamente e militarmente, di fronte ad una minaccia totale alla propria libertà e alla propria vita, impressiona l'ancor diffusa indifferenza, o tiepidezza di risposta dell'Italia, dei suoi governanti, ma anche delle élite culturali del Paese.


Non è solo questione di muoversi con la stessa forza e pressione politica e economica che ha messo in atto giustamente la Merkel contro l'espansionismo imperialista di Putin in Ucraina, il quale ha pronti carri armati e milizie su tutto il confine orientale dell'Europa. Ma innanzitutto reagire dal punto di vista culturale. La difesa della nostra libertà, l'affermazione di principi di tolleranza e rispetto dell'altro, la laicità dello Stato che vuol dire libertà religiosa per tutti, e quindi libertà di pensiero e di credo per ciascuno, questo spetta a noi professarlo, crederlo, testimoniarlo, esigerlo, viverlo senza se e senza ma. A cominciare dall'uso dei termini.
Colpisce come si utilizzi spesso, anche tra le élite culturali, il generico termine di terrorismo, quasi fosse un'entità astratta. Va detto chiaramente che si tratta di islamismo fondamentalista, anzi di una concezione falsa della religione, una bestemmia verso Allah. E come tale va riconosciuto e combattuto, chiedendo con forza ad ogni musulmano di essere parte di tale battaglia contro i fondamentalisti islamici e chi fa uso della violenza in nome del Corano. Questo va preteso non soltanto dagli islamici che vivono in Europa, ma anche dalle classi dirigenti arabe troppo succubi di fronte agli integralisti e incapaci di reagire.


Le Brigate rosse in Italia furono vinte quando la sinistra prese atto che non si trattava di «compagni» che volevano la rivoluzione, ma di un attacco alla libertà e alla vita di ciascuno, e come tali andavano combattuti. E le Br furono sconfitte quando l'intero Paese mostrò la sua fermezza, isolando i brigatisti, scendendo in piazza contro la violenza, e dando allo Stato tutti gli strumenti necessari, anche armati oltre che giudiziari, per combattere il terrorismo in ogni sua espressione. Anche quello che uccideva i giuslavoristi, perché chiedevano semplicemente di riformare i vetusti riferimenti normativi del diritto del lavoro.
Questo va fatto anche oggi. Innanzitutto «non avere paura» di fronte al fondamentalismo islamico. L'Italia è obiettivo sensibile. L'Expo di Milano e il Giubileo di Roma saranno presi di mira dai seminatori di morte. Ma occorre reagire, dimostrare che il Paese è vivo, crede nella libertà, lotta per difenderla, parteciperà in massa a quelle manifestazioni. Va sollecitato poi a tutti i musulmani in Italia di condannare con forza la violenza islamica, ogni violenza nel nome di Allah o di Dio; e di denunciare chiunque nell'islam, anche in Italia, arruola fanatici ed esaltati, diffonde verbo di violenza o raccoglie denaro per scopi di violenza.
Non è più tempo di buonismo suicida: i musulmani sono parte dell'Italia, sono italiani, ma proprio per questo va richiesta la piena integrazione nei valori italiani, nella cultura italiana, nella lingua italiana. Totale condivisione della libertà e del rispetto della vita di tutti, come fondamento della nostra pacifica convivenza, e della religione altrui.


Poi occorre una decisa reazione politica. Con l'Isis in Libia, cioè alle porte, l'Italia è minacciata nella sua sicurezza. Il Patto atlantico prevede che un paese membro minacciato richieda la consultazione degli alleati, richiami l'attenzione su quanto sta avvenendo nel Mediterraneo. Stessa cosa a livello europeo. Non basta l'allerta della Ue sul fronte est di fronte alla minaccia di Putin. È il fronte sud che incombe. E tutto questo richiede una immediata reazione politica, diplomatica e anche militare se necessario, per stabilizzare la Libia. Se salta del tutto la Libia, è finita. Avremo una nuova Siria ai nostri confini nazionali. Ora non è più solo una questione di approvvigionamenti energetici, è in gioco la sicurezza nazionale. Serve un piano italiano per la Libia, sostenere con convinzione l'embargo di armi (a cominciare da quelle italiane), esercitare pressioni internazionali per bloccare i flussi finanziari, a partire dall'Arabia e dagli altri emirati arabi. Pur senza ipotizzare (almeno per ora) alcun intervento armato, anche solo operazioni di peacekeeping in Libia richiedono organizzazione, preparazione e convinzione. Ma l'Italia lo vuole fare? E soprattutto ne è convinta e consapevole? Il risveglio potrebbe essere tragico. Perché se stavolta l'Italia non si muove per prima, e convince e coinvolge l'Europa prima ancora degli Stati Uniti, non ci saranno altri a farlo. E di fronte al prossimo attentato, magari a Roma o a Milano, non potremo che piangere su noi stessi, e sulla nostra indifferente (e codarda) pusillanimità.

comments powered by Disqus