Sette storie di bene, nel secolo del male

Sette storie di bene, nel secolo del male

di Vincenzo Passerini

Sette storie, tra le centinaia. Il ’900, con lo sterminio degli ebrei e gli altri genocidi, è stato il secolo del male assoluto? Allora le storie di coloro che a questo male hanno contrapposto il bene, contro tutto e contro tutti, anche a costo della propria vita, vanno ricordate e tramandate come la testimonianza più vera che negli esseri umani la fraternità sa essere non meno assoluta della ferocia. E che non è solo inesauribile la fonte della ferocia, ma anche quella della fraternità.

«Un’altra polacca non ebrea che mostrò un tale coraggio fu Teresa Strutynska-Christow. Aveva 15 anni quando i tedeschi impiccarono su madre nella piazza della città e lasciarono che il suo corpo penzolasse per sette giorni nel deliberato tentativo di spaventare tutti gli abitanti polacchi della città. La casa di Teresa aveva le finestre sulla piazza. Per sette giorni vide sua madre appesa lì. Come risultato, decise di nascondere gli ebrei. E così fece».
Martin Gilbert, I Giusti. Gli eroi sconosciuti dell’Olocausto, Città Nuova, 2002, p. 131

«Sui bordi della strada c’erano mucchi di cadaveri. Alcune persone erano legate e altre impiccate. Alcune le infilzavano nel girarrosto, altre le bruciavano e altre ancora si preparavano a ucciderle. Alcuni soldati accendevano il fuoco, altri uccidevano mentre altri ancora con le ruspe scavavano la terra … A Kravice siamo stati fermati da due mezzi blindati. Un soldato si è avvicinato e ha ordinato all’autista di scendere dall’autobus mentre noi dovevamo rimanere ai nostri posti. Senza muoversi dal suo sedile l’autista ha risposto:  “Io non voglio uscire né tanto meno consegnarti questa gente. Se volete fare loro qualcosa faccio subito precipitare l’autobus nel fiume. È meglio che muoiano in questo modo piuttosto che passare per le vostre mani!”. Un soldato è salito sull’autobus, ha afferrato l’autista per le mani, per le orecchie e per i capelli e ha tentato di scaraventarlo fuori. Mentre lo malmenavano lui urlava: “Non mi farete uscire vivo da qui! Uccideteci tutti così la finiamo con questo inferno una volta per tutte!”. In qualche modo è riuscito a liberarsi e abbiamo proseguito oltre. Ma dopo pochi metri i soldati serbi ci hanno fermato di nuovo: “Uscite tutti! Lassù tra i boschi ci sono i vostri figli! Chiamateli, così vengono con voi!”. L’autista ha risposto gridando dal finestrino: “Io parto! Se qualcuno di voi mi si mette davanti gli passerò sopra con l’autobus!”.  Fino a Kladanj non ci siamo più fermati. Arrivati a destinazione l’autista ci ha suggerito: “Camminate in mezzo alla strada. Sui bordi è pieno di mine”. Noi lo abbiamo ringraziato e lui ha cominciato a piangere: “Andate, gente! State attenti e che la fortuna sia con voi”. Non so come si chiamava quell’autista. So solo che era un serbo».
Svetlana Broz, I giusti nel tempo del male. Testimonianze dal conflitto bosniaco, Erickson, 2008, pp. 443-444.

«La personalità di Johannes Lepsius era tale da incutere rispetto ai nemici e agli amici, e tuttavia in alcuni momenti egli non poté che contare su se stesso, sulla sua famiglia e su pochi fedeli rimasti. Hermann Goltz ci ricorda che il famoso Rapporto sulla condizione del popolo armeno in Turchia venne pubblicata da Lepsius a Potsdam a dispetto della censura militare tedesca. Alcuni tipografi non avevano osato stampare un testo che denunciava fatti atroci e la cui pubblicazione gettava cattiva luce sull’alleato turco. Lepsius corse affannosamente da un tipografo all’altro per riuscire a stamparlo e finalmente fu in grado di distribuire in Germania 20.000 copie del libro, ultimato nell’estate del 1916 … Quando la polizia  intervenne riuscì a confiscare soltanto poche copie … egli fu poi costretto a rifugiarsi in Olanda, dove continuò a lottare contro lo sterminio del popolo armeno … Lepsius morì a 68 anni, il 3 febbraio del 1926 a Merano, in Italia, dove aveva cercato rifugio e dove venne sepolto nel cimitero evangelico».
Pietro Kuciukian, Voci nel deserto. Giusti e testimoni per gli armeni, Guerini e Associati, 2000, pp. 71-77

«Allo scoppio della guerra, e specialmente dopo il settembre del 1943, Odoardo Focherini iniziò la sua opera in favore di tutti i perseguitati con base nella sua casa di Carpi, nella casa del cognato a Mirandola, negli uffici dove lavorava, nella sede del giornale e nella chiesa dove don Dante Sala era parroco a San Martino Spino di Mirandola. Si adoperò in favore di soldati alleati fuggiti dai campi di internamento e di ebrei residenti nella zona di Carpi, Modena e Bologna. Trovava documenti falsi o falsificava documenti autentici … Focherini fu arrestato per la sua attività l’11 marzo del 1944 e portato dapprima nella prigione di San Giovanni in Monte a Bologna, poi trasferito nei campi di polizia e di transito di Fossoli di Carpi, e di Bolzano. Fu deportato nel campo di concentramento di Flossenburg e nel sottocampo di Hersbruck dove, purtroppo, morì il 24 dicembre del 1944».
I Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945, Mondadori, 2006, pp. 129-130

«L’uomo come fine è un lusso che nessuno si può permettere perché il campo costringe a usare l’altro uomo come mezzo per il prolungamento della propria vita … Razgon ricorda il disprezzo che provò quando il giudice Gadai gli mostrò l’accusa contro di lui redatta da quello che riteneva uno dei suoi migliori amici. Non si era ancora ripreso dallo stupore per quel tradimento che l’inquirente lo invitò a firmare una dichiarazione contro il suo amico. Fu molto difficile per Razgon non seguire l’esortazione del giudice. Quel rifiuto gli costò il prolungamento della pena».
Autori Vari, Storie di uomini giusti nel Gulag, Bruno Mondadori, 2004, p. 37


«Era difficile immaginare che proprio a Berlino, la capitale del nazismo, potesse esistere una casa dove una donna tedesca (Elisabeth Abegg) riusciva a nascondere dei bambini e accogliere nella sua piccola sala da pranzo, ogni venerdì pomeriggio un gruppo di ebrei disperati in cerca di conforto e di qualche cosa da mangiare».
Gabriele Nissim, Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il Gardino dei giusti, Mondadori, 2004, p. 284


«La storia di Si Ali Sakkar è la seguente: in un momento critico della battaglia di Tunisia, la valle di Zaghouan era stata teatro di violenti combattimenti. Tra colpi di cannone e bombe che cadevano ovunque, un gruppo di circa sessanta ebrei internati in un campo di lavoro dell’Asse situato nelle vicinanze della fattoria aveva approfittato della confusione per fuggire. In cerca di un rifugio, i sessanta si erano presentati alla porta della fattoria di Si Ali. L’ex ministro divenuto proprietario terriero li aveva accolti, sfamati, ospitati e mantenuti sotto la sua protezione fino a che gli alleati, procedendo nell’avanzata da Bizerte a Tunisi, si erano impadroniti della vallata di Zaghouan».
Robert Satloff, Tra i giusti. Storie perdute dell’Olocausto nei paesi arabi, Marsilio, 2008, pp. 142-143 

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