Per strada, a Port au Prince

Per strada, a Port au Prince

di Federico Uez

Mototaxi che sfrecciano da destra, da sinistra, contromano, carichi di una, due, tre o quattro persone.

I clacson suonano di continuo, unico modo, in assenza di segnaletica, per regolarsi nel traffico di Port au Prince.

Tantissimi uomini e donne affollano i marciapiedi, attraversando le strade all’improvviso, lanciando segnali agli automobilisti: chi alza il braccio, chi alza il pollice, per farsi notare.

È impressionante il numero di giovani e bambini, altissimo: la maggior parte in divisa, pronti per andare a scuola al mattino presto, verso le 6 e mezza, tipica ora in cui mi trovo in strada per andare a Kay Chal.

I tap tap colorano le strade grigie della capitale haitiana. Sono i mezzi di trasporto comuni: pick up che trasportano da dieci a quindici persone, seduti su delle panche nel cassone, qualcuno in piedi, appeso per non cadere, coperti da una struttura costruita ad hoc. Tutti sono colorati e con i disegni più strani, per di più legati a personaggi noti o religiosi. Sono immancabili poi le scritte quali «Grazie Gesù», «Dio ti protegge» e così via.

Le macchine si muovono cercando ogni scorcio possibile all’interno degli onnipresenti «bloquis»: colonne di traffico che si creano e scompaiono come nulla fosse. A Port au Prince, per fare un chilometro in queste condizioni, puoi metterci anche ore, se sei sfortunato. La polizia ogni tanto appare all’improvviso per velocizzare le cose, poi altrettanto veloce scompare, e tutto torna come prima. Spesso, a regolare il traffico, si  trovano anche gendarmi armati con fucili, passamontagna, elmetti e giubbotti antiproiettili, ai quali difficilmente ci si abitua.

Immancabile è sempre la musica proveniente dai tap tap, dalle casse delle moto, o da gruppi di persone che montano impianti audio potentissimi al lato della strada.

La polvere poi è una costante, soprattutto in questi mesi ventosi. In molti girano con sciarpe alla bocca, mascherine e bandane per proteggersi.

Ogni tanto, a rendere le cose ancora più surreali ci pensa la missione onu della MINUSTAH: in una tranquilla mattinata può capitare di vedere convogli armati di mezzi corazzati, montati da soldati brasiliani o del Bangladesh, dai caschi blu e con le armi puntate, in missione di ricognizione, in netto contrasto con il «normale» caos di Port au Prince, i bambini che accorrono a scuola, le donne che preparano il cibo al lato della strada, i venditori di bibite e banane fritte che accostano gli automobilisti interessati.

In questo caos enorme, mi piace in particolare viaggiare sul cassone della jeep. Mi piace respirare, sentire, sporcarmi di polvere, toccare ancora più da vicino questa realtà, a cui pian piano mi sto abituando e lentamente sto provando a comprendere, ponendomi sempre molte domande.

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