Così si rende udibile l'invisibile

Così si rende udibile l'invisibile

di Open Wet Lab

Siamo nel 2014: Saverio Murgia e Luca Nardelli, due giovani studenti universitari in procinto di laurearsi in ingegneria biomedica con un tesi sulla computer vision, stanno passeggiano per le strade di Genova quando un passante chiede loro di aiutarli per raggiungere le fermata dell’autobus. Il passante è cieco e il suo problema colpisce nel profondo Saverio e Luca, che hanno l’idea di sfruttare le loro conoscenze in robotica per aiutare le persone ipovedenti.

Nell’anno seguente fondano una startup, assumono dei collaboratori, vincono numerosi premi e alcuni importanti riconoscimenti monetari, creano dei prototipi e catturano l’attenzione dei media (Wired e Le Iene fra tutti): è nata Horus Technology. Il nome deriva dal dio egizio Horus, a cui fu ricostruito l’occhio perso in battaglia grazie al dio della saggezza Thot.

Che cos’è Horus e come funziona? Chiediamolo direttamente a Luca Nardelli, 23 anni, fondatore e Chief Technology Officer della società.

È un assistente personale indossabile per persone cieche o ipovedenti. È un dispositivo che si indossa in testa, come se fosse un piccolo microfono ad archetto, ha un sistema di visione e dei sensori e di fatto osserva la scena, la elabora con degli algoritmi e parla all’utente, riconoscendo e descrivendo alcune caratteristiche dell’immagine stessa: la presenza di testi, volti, oggetti, ostacoli lungo il percorso o la posizione di un attraversamento pedonale. Tutte queste informazioni vengono estratte dal segnale visivo e veicolate alla persona non vedente tramite un sistema di cuffie a conduzione ossea, che permettono di mantenere completamente la percezione uditiva del mondo esterno.

Quali sono state le tappe fondamentali nella nascita di Horus Technology?

È tutto nato come un progetto personale, quasi un hobby. Poi il primo evento chiave è stato lo Startup Day di Genova, organizzato da Confindustria ad aprile 2014, perché è stato il momento in cui abbiamo coinvolto altre persone e abbiamo raccolto la nostra prima vittoria. Per noi è stato importante soprattutto il riconoscimento del nostro lavoro e la spinta motivazionale che ci ha fornito, facendoci capire che il progetto aveva del potenziale.
 
Quindi possiamo dire che da quel momento le cose hanno iniziato a farsi serie.

Sì, da lì abbiamo iniziato ad avere dei contatti con le associazioni per la disabilità visiva e abbiamo distribuito dei sondaggi alle persone ipovedenti per capire al meglio quali fossero le difficoltà che incontravano e come il nostro dispositivo potesse aiutarli.

Come avete finanziato il progetto?

Fino a maggio dell’anno scorso le spese erano piuttosto contenute e ci siamo autofinanziati. Poi abbiamo vinto la competizione di Eindhoven organizzata dagli EITICTLabs e questi sono stati i nostri primi fondi con cui iniziare a creare i prototipi, confermando la validità del nostro progetto da un punto di vista europeo.

Tra settembre e novembre siete stati a Working Capital, l’acceleratore di TIM a Milano, raccontaci quest’esperienza.

Il percorso di accelerazione consisteva in due cose: da un parte avevamo uno spazio di co-working con altri gruppi, dall’altra venivano organizzati regolarmente incontri con esperti del settore che ci potessero trasmettere le loro esperienze. Quest’ultimo punto è stato molto importante anche per fare network e allacciare contatti con persone interessate al progetto.

E cosa avete pianificato per il futuro?

Anzitutto crescere, nel senso che ora abbiamo assunto altre due persone a tempo indeterminato. Poi, raccogliere fondi per partire con la progettazione hardware che ha dei costi molto elevati.

Una previsione su quando potremo vedere Horus sul mercato?

L ’obiettivo che ci siamo posti è per la seconda metà del 2016, considerando anche le tempistiche e le stime dei progettisti che abbiamo contattato.

Com’è fondare una startup in Italia? Quali sono le difficoltà che avete incontrato?

Adesso penso che sia più facile rispetto a quando abbiamo fondato Horus, perché è stata introdotta la possibilità di costituire una startup innovativa senza notaio, snellendo la burocrazia. All’epoca abbiamo incontrato lo scoglio delle prime tasse da pagare nel momento in cui nasce la società, ma per fortuna avevamo vinto il grant. Per come la vedo al momento è come aprire una normale società, nel senso che gli adempimenti legali sono più o meno gli stessi.

Qual è il momento che ricordi con più gioia? E quello più buio?

Quello che stiamo seguendo è un percorso che ha sempre degli alti e bassi: siamo tutti alla prima esperienza e le difficoltà che incontriamo fanno parte del percorso di crescita e di apprendimento. Fare una previsione finanziaria per cinque anni, un algoritmo da implementare che non va, i brevetti del competitor: sono tutte esperienze che sul momento sembrano problematiche, ma pensandoci in seguito ti rendi conto che quello di cui ti stai occupando nel presente è più difficile.

Quindi fondare una startup può essere un percorso di crescita personale?

Sì, c’è moltissimo da imparare, specialmente se vivi quest’esperienza come stiamo facendo noi, con flessibilità nelle decisioni, spostandoci molto tra diverse città, partecipando gli eventi e soprattutto mettendoci passione e impegno.

Com’è stata l’esperienza del crowfunding? La visibilità fornita da Le Iene vi ha aiutato?

Sicuramente, Le Iene sono arrivate nel momento iniziale della campagna e nella prima serata ci hanno fatto duplicare quanto avevamo raccolto. Per quanto l’analisi del crowfunding invece siamo molto soddisfatti, siamo riusciti a raccogliere il 150 per cento di quello che ci eravamo prefissati. La cifra era simbolica, perché impallidisce se paragonata con le richieste di un’azienda di progettisti, ma ci ha permesso di proseguire con i test dei prototipi ed espandere il team.


Dennis Pedri

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