Editoriale / Politica

Il candidato unico nell'Italia del no

Faustini: la politica è inchiodata a tre domande. Ecco quali sono

Ha ragione Walter Veltroni quando - a proposito di no vax, no green pass, no tav, no euro, no immigrati e ormai anche di no voto - dice che Dante anziché parlare del «bel paese dove il sì suona» ora parlerebbe probabilmente del «bel paese dove il no suona».

Del resto, il no - se s'esclude qualche nobile caso - paga quasi sempre più del sì. Da Mussolini in poi, certo non solo in Italia, ci sono fior di politici che sui "no" al sistema e a chi lo guidava hanno costruito (o tentato di costruire) un nuovo sistema. Che di solito s'è rivelato democraticamente e anche intellettualmente più fragile di quello che l'aveva preceduto.

I "no" sono quelli di chi gioca in difesa, di chi si oppone a tutto, di chi non coglie che una volta al governo, con i no, non si va da nessuna parte. Perché governare impone dei sì, delle scelte, delle decisioni. E produce fratture fra maggioranze e minoranze su provvedimenti che fin troppe volte, come Paese, abbiamo preferito delegare ad altri. I tecnici.

Gli uomini soli al comando (non posso scrivere donne sole, perché al governo e sul Colle di donne purtroppo non se ne sono mai viste). Quelli che possono dire dei sì che noi non diciamo e ai quali possiamo dire dei solenni no dopo un po', quando ci stufiamo all'improvviso del loro decisionismo.

Prendete la situazione che si sta generando a Palazzo Chigi e al Quirinale. Sembra che per l'uno e per l'altro ci sia un solo candidato: Mario Draghi. C'è persino chi sogna cambiamenti costituzionali per introdurre nuove forme di presidenzialismo.

Ma i rischi sono più dei vantaggi. E in parte sono proprio figli dei vari veti, dei vari no (incluso, per paradosso, quello nobilissimo di Mattarella ad un bis). Il Paese oggi infatti corre veloce, ma è anche congelato: le chiavi del treno sono nelle mani di un ottimo tecnico che alcuni adorano perché decide tutto al posto loro e che altri, per la stessa ragione, detestano.

La politica è inchiodata a tre domande. Far cadere il governo per mandare Draghi al Quirinale, come se le due cose potessero davvero essere connesse, come se ci fossero garanzie in tal senso e come se un Paese stremato e in parte sfiduciato potesse capire?

O cercare di garantire a Draghi di restare a Palazzo Chigi anche dopo elezioni che, salvo appunto scossoni, si svolgeranno qualche mese dopo la nomina del nuovo presidente della Repubblica? E come conciliare tutto questo con il ritorno, che è tale almeno negli auspici degli interessati, del primato della politica rispetto al primato della tecnica?

Come succede in ogni conclave che si rispetti, Draghi corre il rischio di dover lasciare palazzo Chigi per non arrivare poi al Quirinale. La storia, come possono insegnare Prodi e molti altri, bruciati in poche ore, è piena di certezze che evaporano in un istante, solitamente nottetempo. Ha ragione chi dice che è presto per parlare del Colle, ma - in un Paese sempre più diviso e sempre più carico di no - quanti mesi di fibrillazione possiamo ancora permetterci?

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