Editoriali / Storia

Nascosta a Trento l’ebrea che vendeva gli ebrei ai nazisti

Pochi mesi dopo Roma venne liberata; la donna fuggì e appunto nel 1948 la sua fuga, da Napoli, Roma, Assisi e Trento è stata magistralmente ricostruita dal settimanale Tempo

TRENTO. Dal Ghetto di Roma al “fogolar” di piazza Cappuccini in Trento. Dal 16 ottobre del 1943 quando le SS di Herbert Kappler rastrellarono gli ebrei per portarli con un viaggio senza ritorno ad Auschwitz-Birkenau, al 2 aprile del 1948 quando un taxi partito da un convento di clausura di Assisi aveva trasferito in cima a via della Cervara Celeste Di Porto la donna ebrea che aveva venduto ai nazifascisti gli ebrei della Capitale. Cinquemila lire per ogni ebreo indicato ai nazisti: questa la ricompensa per i delatori, tutti italiani, tutti miserabili collaborazionisti.
 

Era il 16 ottobre del 1994, cinquantesimo anniversario del tragico rastrellamento e il Corriere della Sera a firma del giornalista Silvio Bertoldi e con il titolo “L’ebrea che vendeva gli ebrei” scriveva: “Carcere di Regina Coeli. Roma. Anno 1944. Sui muri della cella numero 306, terzo raggio, incisa con un chiodo si legge” – si leggerà ancora? – “la scritta: sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Se non arivedo la famiglia mia è colpa di quella venduta di Celeste di Porto. Rivendicatemi”. Venne ucciso alle Fosse Ardeatine; il suo nome non era compreso nella lista dei destinati alla fucilazione ma venne inserito poco prima del trasferimento alle Ardeatine in sostituzione di un altro ebreo, tale Angelo Di Porto fratello della delatrice Celeste, la ragazza del Ghetto.
 

Finita la guerra, liberata in fretta dalla prigione per l’amnistia di Palmiro Togliatti, si fece cristiana, venne nascosta ad Assisi in un impenetrabile convento di clausura e per decisione del Vescovo Giuseppe Placido Nicolini di Villazzano che durante i giorni più tragici della guerra nascose, salvandoli dalla deportazione, molti ebrei, portata a Trento nel Focolare di Silvia Chiara Lubich. La cercava il Mossad. La cercavano i supersiti del Ghetto. La trovarono i giornalisti del settimanale statunitense Life e il settimanale Tempo che il 21 maggio del 1948 cominciò a raccontare in quattro puntate ampiamente illustrate, la storia e la conversione di Celeste.

Da sottolineare che quando si convertì e ricevette i Sacramenti del battesimo e della cresima ebbe un madrina un po’ insolita: Elena Hoehn che a Roma era stata ufficiale, comunque una funzionaria, della Gestapo. E il fotografo era, a sua volta, un tantino speciale. Era arrivato dagli Usa, inviato dalla United Press. Anche l’Unità di domenica 3 novembre 2013 dedicò una pagina alla spia del Ghetto detta “la Pantera Nera” o “La Stella di Piazza Giudia”. Poi la sera di mercoledì 25 agosto 2010 a Villazzano, Piero Terracina sopravvissuto ad Auschwitz, che nel Ghetto aveva visto la Celeste mi disse: “Io la ricordo, sì la ricordo quella ragazza, in particolare in una occasione, il 25 luglio del 1943 quando cadde il fascismo. Eravamo tutti a gioire per la strada, io ero un ragazzo. Eravamo tutti ebbri di gioia perché era caduto Mussolini. La ricordo quella ragazza di una bellezza straordinaria che stava su un camion assieme ad altre decine di ragazzi con un bandierone, urlando di gioia con quella bandiera italiana che sventolava”. Era il momento della resurrezione d’Italia e fu una festa in tutte le città del Regno. Anche Celeste gridò la sua gioia.
 

Poi arrivarono i tedeschi. E arrivò quel giorno passato alla storia come il “sabato nero”, il rastrellamento del Ghetto, una retata che fece catturare 1.259 persone di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica. Era stata organizzata da Kappler, compiuta da militari tedeschi appoggiati da funzionari fascisti guidati da prezzolati collaboratori che indicarono i nascondigli degli ebrei. Gli automezzi della Gestapo arrivarono nel Ghetto alle 5.30; le poche fotografie e alcuni brevi filmati mostrano gli autocarri e le motocarrozzette bloccare via del Portico d’ Ottavia, i soldati armati radunare la gente, spingerla sui cassoni degli automezzi che partono sorvegliati dai militari sulle moto. La retata compiuta anche in altre zone dell’ Urbe finirà alle 14 lasciando la città sgomenta. Ma nessuno poteva immaginare dove i deportati sarebbero finiti e cosa sarebbe accaduto.
 

Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di “sangue misto” – i Mischling termine coniato con le leggi di Norimberga per indicare una persona “non pienamente di razza ariana”, i “mezzosangue” nel gergo fascista – 1.023 rastrellati vennero caricati su carri merci e deportati al campo di sterminio di Auschwitz. Forse uno dei convogli si fermò per alcune ore davanti alla stazione di Mattarello. Era il ricordo, vago, di un contadino che per recarsi nel suo campo doveva attraversare i binari nella zona dove c’era il vecchio passaggio a livello. Raccontava – era il 1973 trentesimo anniversario del bombardamento della Portéla – che soldati armati circondavano un convoglio di carri merci con i portelloni sprangati. Venne spintonato da un militare e, pur parlando un buon tedesco imparato quando era militare in Galizia nella Grande Guerra dovette andarsene subito. Il treno era diretto a nord: poteva essere uno di quei convogli che trasferivano gli ebrei romani in Polonia, al campo di sterminio. Soltanto 16 di loro sopravvissero: 15 uomini e una donna: Settimia Spizzichino deceduta a Roma nel luglio del 2000.

Quinta di sei figli, Settima era nata in una famiglia del Ghetto ebraico di Roma. Il padre Mosè Mario Spizzichino, era commerciante di libri. La madre, Grazia Di Segni era maestra alla scuola ebraica. Due fratelli: Gentile e Pacifico e tre sorelle Ada, Enrica e Giuditta. In quel tragico giorno fu deportata con la mamma, due sorelle e una nipotina. Da lei la testimonianza dell’orrore che molti, troppi continuano a negare. Il 23 ottobre, dopo sei giorni di viaggio, appena giunti nel campo Auschwitz-Birkenau iniziò la selezione dei deportati arrivati da Roma; mentre la madre e la sorella Ada con la bambina in braccio furono messe nella fila destinate immediatamente alla camera a gas, Settimia con la sorella Giuditta finì nella fila degli abili al lavoro e ricevette il numero 66210. Delle 47 donne rimaste dopo questa prima selezione, Settimia fu l'unica a tornare e a quelle compagne di prigionia ha poi dedicato il suo libro di memorie.
 

Avvenne di sabato per decisione di Kappler. Sapeva che per gli ebrei il sabato è la ricorrenza più importante perché è la giornata interamente dedicata al Signore. Inizia dopo il tramonto del venerdì e si conclude all'apparire delle prime stelle della sera di sabato, in ebraico Shabbath che deriva da shavath (“cessare”) e ricorda il giorno in cui il Signore concluse la creazione dell’ Universo. Dal tramonto del venerdì e per quasi 25 ore, per non turbare il normale equilibro della natura, gli ebrei non possono scrivere né fare le attività più banali come aprire il rubinetto dell’ acqua, premere il pulsante dell’ascensore, accendere la luce o un fuoco, rispondere al telefono, cucinare, fare shopping. Nelle case si cantano brani popolari e salmi, si legge, si studia e si discute attorno alla Torah, ai commentari, al Talmud, alla Halakha e ai Midrash. Si consumano tre pasti completi che includono la Challah, il classico pane del sabato. Soprattutto si sta assieme nel segno del Signore.
 

Kappler sapeva benissimo che nonostante la necessità restare nascosti e lontano dalla zona del Ghetto, di sabato gli ebrei cercavano di vedere i parenti più stretti, di incontrarsi, di riunirsi nella preghiera; l’ufficiale germanico pagava bene le spie: subito cinquemila lire, viveri e sigarette per ogni ebreo fatto catturare. Somma ingente per quell’epoca nella quale era in voga la canzone di Gilberto Mazzi che faceva: “Che disperazione, che delusione dover campare – sempre in disdetta, sempre in bolletta… se potessi avere mille lire al mese – senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità”.

 

Dunque 5000 euro odierni per vedere uomini, donne, bambini, vecchi strappati dalle loro case, spintonati sui camion, fatti sparire. Non si sapeva che sarebbero stati uccisi. Ma oggi conosciamo tutto l’orrore delle camere a gas; lo dovrebbero conoscere anche quanti sostengono che la Terra è piatta, che nel vaccino, unica speranza contro il morbo che infuria, le case farmaceutiche con la complicità di Draghi o di Putin o di Angela Merkel ci iniettano un qualche cosa che ci farò morire fra tre anni, ci renderò sterili, ci farà votare quello che vorranno “lor signori”. Pazienza, nella libertà sovrana ciascuno pensi ciò che meglio crede, ma scendere in piazza a Novara e anche a Trento ostentando la casacca dei deportati non è segno di libertà ma di totale imbecillità. Che però è diffusa.
 

Dal testo di una nota trasmessa da un’agenzia di stampa si legge: “Ecco come riconoscere un ebreo. E’ il titolo sparato in prima pagina dal Tylko Polska (Solo Polonia) settimanale di estrema destra polacco. Non stiamo citando edizioni del Völkischer o dello Stürmer gli organi ufficiali del Terzo Reich distribuiti in Germania dal 1933 alla fine della guerra, ma il titolo di un giornale della estrema destra dei sovranisti polacchi, i sostenitore del governo di maggioranza del PiS, il partito guidato da Jaroslaw Kaczynski. Titolo ripreso da Haaretz importante giornale di Israele. A dimostrare che l’antisemitismo c’è. Come il morbo, Però non ci sono medicine contro l’ignoranza.

Certo, Celeste Di Porto fu una protagonista di quell’epoca infame. Anticoli

venne catturato al mattino del 23 marzo del 1944 perché era ebreo. Nel pomeriggio di quel giorno scoppiò la bomba di via Rasella e il 24 venne assassinato alle Fosse Ardeatine. Ebbe solo il tempo di scrive quel messaggio sul muro della cella per accusare la ragazza del Ghetto. Da molto tempo sappiamo che la sera dell’attentato, nel suo ufficio di via Tasso il colonnello Kappler cominciò a compilare l’elenco dei 330 italiani di cui Hitler aveva chiesto la morte per la rappresaglia: 10 italiani da ammazzare per ogni soldato tedesco ucciso in via Rasella. Gli mancavano 50 nomi, li chiese al questore di Roma Filippo Caruso che racimolò quanti più infelici potè. Ma non bastavano. Celeste Di Porto gli fornì alcuni nomi, tutti uomini eliminati con un colpo alla nuca nel buio di quella cava divenuto il simbolo della italica riscossa.

Pochi mesi dopo Roma venne liberata; la donna fuggì e appunto nel 1948 la sua fuga, da Napoli, Roma, Assisi e Trento è stata magistralmente ricostruita dal settimanale Tempo.

(16, continua)

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