Il lutto / L’addio

L'amara lezione di Gino Strada

Addio ad un antieroe fatto di bontà, di impegno contro ogni ingiustizia e di camici consumati a curare persone in ogni angolo sofferente del pianeta, amava l'impegno diretto

TRENTO. Luca Barbarossa, che lo conosceva bene, perché ha partecipato a molte iniziative lanciate da Gino Strada e dalla sua Emergency, mi affida un pensiero che s'aggrappa al dolore di queste ore: «È incredibile: Gino è morto mentre i talebani occupavano l'Afghanistan, mentre attaccavano una terra ormai praticamente senza difese. È come se avesse preferito non vedere».

Poche ore prima di morire, sulla Stampa, Gino Strada aveva scritto un articolo che è una lama acuminata infilata nei nostri fin troppo spensierati pensieri estivi: «Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero di feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall'insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l'esito di quella aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l'Afghanistan è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile».

Gino Strada, un antieroe fatto di bontà, di impegno contro ogni ingiustizia e di camici consumati a curare persone in ogni angolo sofferente del pianeta, amava l'impegno diretto: la dedizione spesso incompresa o confusa con altro. Come se aiutare chi cerca di sopravvivere ai confini dell'umanità possa avere un colore politico diverso da quello della solidarietà. Non ha mai smesso di ricordarci quanto i signori della guerra s'arricchiscano, quanto sia pericolosa questa instabilità internazionale. Biden non considera più l'Afghanistan un tema americano. E l'Europa, con l'Italia in prima fila, deve se non altro sapere che è qui che arriveranno i rifugiati, che è non lontano da qui che s'arricchirà la già florida industria dei trafficanti (d'armi, di uomini, di terrore). E siamo tutti più soli, più afoni, più incapaci di affrontare questi problemi, senza Gino Strada, senza la sua battaglia contro ogni conflitto («Io non sono pacifista, io mi oppongo alla guerra»), contro ogni violenza, contro quest'odio sempre più trasversale.

Ci mancano già le sue mani capaci di suturare le ferite (reali e metaforiche) e di curare la cecità di chi finge di non vedere. Ci manca la sua coerenza a tratti persino fastidiosa (quella che oggi lo fa ricordare con partecipato affetto anche da chi l'ha osteggiato ogni giorno). Ci manca la sua irruenza messa al servizio d'ogni battaglia contro le ingiustizie, a cominciare dall'impegno in ospedali creati sempre per gli ultimi. Era l'incarnazione dell'altruismo.


L'instancabile combattente sul fronte della salute in luoghi che fatichiamo persino a mettere a fuoco o a disporre in modo corretto sulla cartina geografica di un mondo che immaginiamo lontano anche se è drammaticamente vicino. Chi salva una vita, salva l'umanità: questa era l'unica missione di Gino Strada, questo era il suo universale senso di comunità. Questa è l'eredità che lascia ad ognuno di noi.

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