Lavoro / L’editoriale

Lavorare per vivere, non per morire

Il direttore dell’Adige Alberto Faustini: “Fa bene il ministro del lavoro, Andrea Orlando, a dire che «lo Stato non può risparmiare sulla sicurezza», ma praticamente mentre lo diceva, l'elenco delle vittime s'allungava”

TRENTO. Lo schema è sempre il medesimo. Si muore sul lavoro. Ci si emoziona. Ci si indigna. Ci si ferma con attenzione su alcune storie, su qualche volto, magari versando una lacrima in più per Luana, che con i suoi 22 anni e un figlio di cinque anni si trasforma nel simbolo di ogni vita spezzata, di ogni sogno strappato, di ogni lavoro che finisce tragicamente ancor prima di iniziare, portandosi via progetti, disegni, voglia di futuro.

Poi ci si dimentica delle inchieste, ci si dimentica di chiedersi come mai un'apprendista come Luana fosse da sola a manovrare l'orditoio che l'ha inghiottita, un macchinario dal quale erano stati disattivati i dispositivi di sicurezza. Ci scorderemo, nel giro di poco tempo, perfino del fatto che alla madre, a Prato, i carabinieri hanno portato quel giorno solo una scarpa: era tutto ciò che restava della vita di sua figlia. Una scena straziante.

Fa bene il ministro del lavoro, Andrea Orlando, a dire che «lo Stato non può risparmiare sulla sicurezza», ma praticamente mentre lo diceva, l'elenco delle vittime s'allungava: Andrea Recchia, 37 anni, è morto sommerso da quattordici quintali di mangime a Chiozzola di Sorbo. Samuel Cuffaro, 19 anni, studente lavoratore, e Elisabetta D'Innocenti, 52 anni, madre di due figli, sono invece morti fra fiamme e macerie nella villetta di tufo nella campagna di Gubbio accanto al laboratorio di cannabis light dove lavoravano. A Teodone di Brunico Alessandro Casarotto, 64 anni, è stato travolto e ucciso da una balla di fieno di 400 chili.

A pochi giorni dalla festa del lavoro, un lavoro che spesso non c'è più e che è in ogni senso sempre più insicuro, non si riescono nemmeno a contare le bare. Troppe croci. E lacrime che scivolano nel silenzio. Mancano controlli, mancano ispettori del lavoro, mancano azioni che vadano al di là delle parole di circostanza. Si lavora per vivere, non per morire. E non si può essere disposti a chiudere non uno ma cento occhi di fronte a stabilimenti che mettono a rischio non solo i lavoratori, ma pezzi importanti delle nostre città, luoghi e pericoli dei quali si viene a conoscenza solo quando accade l'indicibile.

Nel 2021 il lavoro viene ancora messo davanti alla sicurezza. Pur di averlo o di mantenerlo, un lavoro, siamo troppo spesso pronti a chiudere gli occhi di fronte all'evidenza. Ma sicurezza del lavoro e sicurezza sul lavoro non possono essere concetti slegati. In questi giorni finalmente la campagna di vaccinazione decolla e dalle nostre parti - con qualche giorno d'anticipo rispetto al resto del Paese - è arrivata l'ora dei figli del babyboom, gli over 50, i simboli di una generazione cerniera fra la memoria che il Covid si è in gran parte portato via e il futuro che i giovani non possono costruire su promesse mai mantenute.

Ma non c'è un vaccino contro chi non si attiva - con continui controlli, aiuti specifici, premi - per fare in modo che s'investa prima di tutto in sicurezza.

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