L'America piange John Lewis: marciò con Martin Luther King nella lotta per i diritti civili

«È una battaglia che dura tutta la vita»: John Lewis lo ha ripetuto fino all’ultimo respiro, osservando dal letto sui cui era costretto dalla malattia l’ondata di proteste antirazziste seguita alla morte di George Floyd.

Lui, pioniere della lotta per i diritti civili dei neri d’America, soffriva nel non poter più scendere in strada al fianco de giovani del Black Lives Matter, per il quale è stato e continuerà ad essere fonte di ispirazione.

Diventato negli anni Sessanta icona di libertà e di giustizia al fianco di Martin Luther King, Lewis era ormai una leggenda vivente, punto di riferimento per generazioni che si battono per un’America più giusta. ‘La Coscienza del Congressò il suo soprannome quando fu eletto per la prima volta alla Camera nel 1986.

A 80 anni si è arreso solo a un tumore al pancreas, che però ha combattuto, al solito, come un guerriero. Un indomito guerriero ma non violento, che sul suo corpo portava i segni della violenza altrui: calci, pugni, schiaffi, bastonate, bruciature inferte con mozziconi di sigaretta. E poi le ferite che spesso non si vedono ma ti restano dentro e fanno ancora più male: gli insulti, gli sputi, gli insopportabili soprusi. Più volte Lewis, figlio di un mezzadro della Georgia che nel 1961 fu tra i fondatori dei Freedom Riders che si battevano contro la segregazione negli Stati del sud, è stato picchiato brutalmente da agenti, suprematisti, bianchi razzisti che non volevano cedere i privilegi ereditati dalla triste storia della schiavitù.

E quando nel Bloody Sunday seguito alla marcia di Selma del 1965 la tv mostrò il cranio di Lewis spaccato in due dal manganello di un agente, quelle cruente immagini diedero la sveglia a un intero Paese e suscitarono indignazione nel mondo intero. Otto giorni dopo il presidente Lyndon Johnson presentò il ‘Voting Right Act’, la storica legge che garantisce il diritto di voto a tutte le minoranze razziali, senza più discriminazioni di sorta.

Cinquant’anni dopo, nel 2015, Lewis attraversò di nuovo quel ponte tra Selma e Montgomery, in Alabama, alla testa di migliaia di persone e tenuto per mano dal primo presidente afroamericano della storia, Barack Obama. Al suo fianco anche la prima first lady afroamericana, Michelle Obama. Il coronamento di un sogno.

Proprio Obama, sempre nel 2015, gli conferì la Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile negli Stati Uniti, rendendo omaggio all’ultimo dei sopravvissuti tra gli oratori della marcia su Washington dell’agosto 1963, quando alla Casa Bianca c’era John Fitzgerald Kennedy e dal Lincoln Memorial Martin Luther King pronunciò il suo leggendario “I have a dream”.

«Lewis ha amato il suo Paese così tanto da rischiare la sua vita e il suo sangue pur di essere all’altezza delle sue promesse», piange ora Obama: «Nei decenni non solo ha dato tutto sé stesso alla causa della libertà e della giustizia, ma ha ispirato generazioni che hanno cercato di seguire il suo esempio». La Casa Bianca in una scarna nota parla di «eredità che dura nel tempo».

Tace invece Donald Trump, un silenzio assordante. Del resto John Lewis era un suo fermo oppositore: «Non è il mio presidente», dichiarò candidamente nel 2016 subito dopo l’elezione del tycoon, contestando fortemente la legittimità della vittoria a suo parere scippata a Hillary Clinton grazie all’aiuto della Russia. E si sa, Trump non dimentica facilmente.

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