Morto il boss che svelò il traffico di rifiuti

«Il nostro era un clan di Stato: noi facevamo i sindaci in tutti e 106 i comuni della provincia di Caserta. Noi potevamo fare tutto». Non era un pentito qualsiasi, Carmine Schiavone: il boss che teneva l'amministrazione dei Casalesi, morto d'infarto nella sua casa nell'alto Lazio, è stato il primo a svelare i traffici del più potente clan camorristico e a raccontare come e quando la provincia di Caserta è stata trasformata in un'immensa discarica dove accogliere ogni tipo di rifiuto tossico.


Omicidi, guerre tra clan, rapporti tra politica e camorra, infiltrazioni nell'economia, traffico di rifiuti: le parole di Schiavone, raccolte in decine e decine di verbali a partire dal maggio del 1993, hanno sconquassato un sistema che andava avanti da decenni e hanno portato, due anni dopo, al maxi bliz contro i casalesi che fece finire in cella 136 persone. Dissero che si pentì perché sospettava che qualcuno all'interno del clan lo avesse tradito, dopo un'evasione dai domiciliari. Fatto sta che le sue dichiarazioni al processo furono la base per una pioggia di condanne, tra cui quelle per suo cugino Francesco Sandokan Schiavone, Francesco Bidognetti e Michele Zagaria. Per il clan - diceva Schiavone - quello dei rifiuti era indubbiamente un «buon business»: perché «i rifiuti avrebbero inquinato le falde acquifere» e molti degli scavi «erano limitrofi alle falde stesse». Si toglieva la sabbia che serviva per le costruzioni, ha raccontato, e nelle vasche, di notte, i camion scaricavano i rifiuti che venivano coperti con un po' di terreno. Quando gli chiesero di quante migliaia di tonnellate stesse parlando, Schiavone rispose così: «Ma quale migliaia, qui si parla di milioni di tonnellate».

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