Pd sempre più nella bufera, Civati minaccia la scissione

Pippo Civati che mette un piede fuori dal partito, i deputati della minoranza Pd che si fanno sostituire «con sdegno» in commissione: ha ascoltato i «segnali», Matteo Renzi, e oggi tirerà le fila di un dibattito interno ad alta tensione, davanti ai mille componenti dell'assemblea nazionale del Pd. A loro chiederà un mandato chiaro, con un voto su un documento che sia la base per affrontare il tornante «complicato» che attende il governo a gennaio-febbraio.


Il segretario-premier in mattinata incontra il Papa, nel pomeriggio partecipa a una riunione con insegnanti e studenti nella sede del Pd, un incontro che fa del Nazareno un «cantiere di storie belle». E lì ribadisce che «il futuro appartiene a chi ha il coraggio di cambiare». Come il suo governo, che ha avviato un lavoro di riforma «strutturale e strutturato» e non si lascia impantanare dagli avversari interni ed esterni, magari solo in cerca di visibilità politica. E il Pd, come dimostra anche l'inchiesta «Mafia capitale», non può più essere «un posto chiuso» dove si fronteggiano le correnti, ma deve essere cantiere di cambiamento. Perché «ottimismo è non lasciare il futuro ai nostri avversari», dice citando il teologo Dietrich Bonhoeffer.


Il premier, scommettono i renziani, davanti all'assemblea del partito non sarà tenero contro chi dall'interno fa una battaglia «sulla pelle degli italiani». E dimostrerà con la maggioranza schiacciante a un documento sulle riforme che sta preparando in prima persona, che il partito, come già il 40% degli elettori alle europee, è con lui. «Io non caccio nessuno», ha sempre assicurato Renzi. E non lo farà, scommettono i suoi, neppure stavolta. Ma traccerà una linea per chiarire a chi ha dubbi se rimanere, che il percorso delle riforme non è negoziabile. «È un thriller, Renzi decide di notte. Ma io sto sereno, non ho niente da perdere, al contrario di qualcun altro che perse palazzo Chigi», si prepara alla battaglia Civati. E da Bologna, dove lancia il suo programma alternativo al Nazareno, un programma «senza il complesso della camicia bianca», si spinge oltre: «Se Renzi si presenta con il Jobs Act e le cose che sta dicendo alle elezioni anticipate, non saremo candidati con lui». Una dichiarazione in cui c'è il sospetto, condiviso anche da altri esponenti della minoranza come Fassina, che il premier si prepari alle urne (tra gli indizi, l'emendamento del governo alla manovra per un unico election day per le amministrative nel 2015). «Dal Pd non me ne vado con infamia da scissionista», precisa il deputato dem: sarebbe Renzi a «mettere fuori» dal Pd lui e un pezzo di sinistra.


Gli altri dissidenti della minoranza assicurano invece che dal Pd non hanno intenzione di schiodare. Ma condividono l'idea che sia Renzi ad avere la responsabilità di «unire», invece di farsi tentare - dice Alfredo D'Attorre - da «corride o conte».
«Ascoltiamo il segretario, poi decideremo cosa fare», spiega il deputato. Ma se il documento fosse «unilaterale», la decisione di Bindi come D'Attorre e Cuperlo e Fassina potrebbe essere non partecipare al voto o addirittura votare contro. In giornata, però, i «pasdaran» della minoranza decidono di dare la prova che non è loro intenzione sabotare il governo, bensì dare battaglia nel merito dei provvedimenti. E lo fanno chiedendo di essere sostituiti in commissione sulle riforme da altri deputati dem (renziani), quando si arriva al voto sui punti su cui dissentono. Un atteggiamento che sarebbe anche il frutto del lavoro di mediazione di quella parte della minoranza di Area riformista, che fa capo a Roberto Speranza, che vuole scongiurare il redde rationem. Niente «psicodrammi», invita anche Pier Luigi Bersani: «Il governo governi con il sostegno leale di tutti noi, ma le riforme sono materia parlamentare, lasci che se la sbroglino lì».

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