Storia / Ricostruzione

Quando centinaia di uomini fluitavano il legname dal Torrente Maso al Brenta, e i tronchi finivano a Padova e Venezia

Presentato venerdì il formidabile libro di ricostruzione storica di Mario Cerato: storie da un mondo antico che non c’è più, ma i cui segni si possono ancora leggere nel paesaggio di oggi

di Fabrizio Torchio

VALSUGANA. «Una storia dimenticata. Le vicende della fluitazione del legname sul torrente Maso» è il titolo dell'ultimo libro di Mario Cerato, prolifico autore di ricerche sulla storia forestale trentina (laureato in scienze forestali, è stato dirigente provinciale del Servizio Bacini montani e del Servizio conservazione della natura). In 164 pagine, il volume ricostruisce la storia dell'utilizzo dei boschi e del trasporto del legname per la via d'acqua nel bacino idrografico del Maso, il torrente della Val Calamento e della Val Campelle che solca il versante del Lagorai rivolto alla Valsugana.

Storie e accadimenti di questa vicenda secolare ma, appunto, dimenticata, sono stati ricostruiti da Cerato lavorando su fonti d'archivio: la prospettiva è allargata ad un contesto più ampio - quello del commercio del legname verso la pianura e la Repubblica di Venezia - da un approfondito saggio introduttivo di Katia Occhi, ricercatrice storica.

Il libro è stato presentato nella sala polifunzionale di Carzano venerdì 26 aprile dagli autori con Massimo Libardi.

A Mario Cerato abbiamo posto alcune domande, così come a Katia Occhi (nell'articolo sotto).

Cerato, i segni dello sfruttamento dei boschi nelle valli del torrente Maso si vedono ancora oggi, tanto che lei collega la loro fragilità agli effetti della tempesta Vaia.

«Poter provare il collegamento degli effetti della fluitazione del legname con gli effetti prodotti dalla tempesta Vaia è una dimostrazione di come la storia possa aiutare a conoscere il territorio. Un'altra dimostrazione è il collegamento fra la storia del territorio e la conoscenza delle fragilità idrogeologiche. La fluitazione era un mezzo di trasporto poco costoso e induceva proprietari, commercianti, ma anche lo Stato (che beneficiava delle tasse sulle esportazioni) a utilizzare i boschi intensamente, riducendone la funzionalità, ciò che si è evidenziato in modo eclatante con la disastrosa alluvione del 1882. Quell'alluvione aveva devastato il territorio e da allora la fluitazione finì e l'Impero iniziò un'intensa attività di rimboschimento che proseguì fino agli anni '60 del Novecento. I rimboschimenti hanno però dato origine a boschi coetanei formati quasi esclusivamente da abete rosso che nel bacino del Maso sono stati in buona parte atterrati dal vento di Vaia e quelli rimasti in piedi sono attualmente attaccati dall'epidemia di bostrico.

Altra conseguenza degli sfruttamenti ottocenteschi dei boschi è stato il dover mettere rimedio ai dissesti idrogeologici interni al bacino del Maso investendo molte risorse nella sua sistemazione. Questi interventi fortunatamente hanno funzionato limitando i danni durante l'alluvione del 1966 e hanno anche evitato che si verificassero gravi danni negli eventi alluvionali avvenuti negli ultimi decenni».

Nel libro si dà conto di un tragico episodio tramandato nella memoria: quando e come avvenne?

«I volontari del Museo etnografico del legno di Carzano si sono messi alla ricerca delle sette croci che si dice fossero state incise sulla roccia per ricordare la morte di sette menadori, boscaioli che avevano il compito di far transitare il legname all'interno della stretta gola rocciosa del Maso. Quelle croci non sono state trovate, ma sono state rinvenute molte incisioni sui massi localizzati nei pressi dei ruderi di un edificio situato in un luogo ristretto in fondo alla forra; sicuramente si trattava di una base dei menadori.

Nel libro vengono descritti i motivi che portano a dedurre che l'incidente sia successo nella seconda metà del Settecento e che fosse stato causato dal cedimento improvviso di un accumulo di tronchi formatosi in una delle strette serpentine della gola».

Nella gola del Maso avvene un altro incidente, quello del Salton: cosa accadde?

«Si è trattato di un altro grave incidente, ma per fortuna questa volta senza vittime. Proprio a cavallo fra Settecento e Ottocento si verificò il crollo di una stua, un'opera posta a monte della piccola cascata del Salton, che aveva la funzione di far fare il salto al legname in modo controllato per evitare che si danneggiasse e si accumulasse a valle della cascata. Durante una piena del torrente si intraprese la fluitazione di una massiccia quantità di legname e la stua crollò deviando il torrente al piede del versante sinistro; su questo versante si aprirono vaste frane che alimentavano costantemente il trasporto solido creando problemi al fiume Brenta fino in Veneto. A seguito di questo incidente già dal 1827 si provvide a disciplinare la fluitazione e a porre rimedio ai dissesti verificatisi. La fluitazione continuò fra contrasti, contestazioni e tentativi di limitarla per evitare i danni che provocava alle arginature sul fondovalle. Venne vietata definitivamente solo dopo l'alluvione del 1882, anche perché nel frattempo era stata costruita una strada carrabile di accesso alla val Calamento e alla val Campelle».

Tanti sistemi diversi: parla Occhi

Katia Occhi, quella della fluitazione del legname in Valsugana è una storia secolare, iniziata nel Quattrocento, intensificatasi a partire dal Settecento e terminata negli ultimi due decenni dell'Ottocento: può spiegare, in sintesi, questa parabola?

«In Valsugana i primi documenti sulla fluitazione sono di fine Quattrocento quando ci sono tracce anche in Primiero e in Tesino. Nell'alto bacino nel Maso è documentata agli inizi del Seicento quando mercanti veneziani e trentini sfruttavano i boschi delle valli Calamento e Campelle per il cantiere dell'Arsenale. Queste attività erano legate allo sviluppo dell'economia della Repubblica di Venezia interessata a utilizzare la legna da ardere e da costruzione che era fluitata rapidamente grazie ai fiumi verso la pianura. I mercanti affittavano i boschi dai comuni in cambio di denaro, cereali, vino, olio che scarseggiavano in montagna. Con la fine del Settecento (caduta di Venezia) e soprattutto dalla fine dell'Ottocento cambiarono gli equilibri del mercato internazionale del legno e l'interesse per i boschi trentini diminuì. Le gravi condizioni dei boschi spinsero gli interessi commerciali verso i bacini inesplorati di altri territori della monarchia asburgica dove si spostò la cosiddetta frontiera del legname grazie all'espansione verso est della ferrovia».

Come avveniva il trasporto dei tronchi verso Padova e Venezia?

«I sistemi erano due: sui torrenti si praticava la fluitazione sciolta e dove l'acqua era profonda almeno un metro e la corrente era più regolare si legavano in zattere. Nel Seicento sono testimoniate zattere in partenza dai porti di Castelnuovo, Villa e Agnedo in Bassa Valsugana. Da qui erano condotte alle segherie "alla veneziana" a nord di Bassano, dove il legname da costruzione era lavorato e poi rispedito ai mercati di Padova e di Venezia, da lavoratori organizzati in compagnie di zattieri».

 

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