Cassazione / La sentenza

Niente fedeltà ma alimenti sì: se la coppia scoppia e non divorzia tocca al marito mantenere la moglie

L’uomo imputava alla donna di non aver trovato un lavoro più remunerativo ma la Cassazione gli ha dato torto obbligandolo a pagare la mensilità di sostegno

ROVERETO. La separazione, ancorché formalizzata davanti a un giudice, non elimina il vincolo del matrimonio (non è un divorzio) e dunque impone al coniuge più facoltoso a sostenere l'altro. Ovviamente vengono meno gli obblighi di fedeltà e convivenza e, comunque, tutto ciò che attiene alla sfera intima e personale ma per quanto riguarda il mantenimento quello resta. Perché, appunto, di fatto la coppia è ancora legalmente valida nonostante sia... scoppiata.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di un marito roveretano ricordando proprio, nell'ordinanza, che «la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i redditi adeguati cui va rapportato l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione».

Veniamo ai fatti. Dopo anni di vita in comune, marito e moglie (che vivono e lavorano nella città della Quercia) si accorgono che la loro storia è finita. Però hanno due figli, maggiorenni ma disoccupati e dunque non in grado di mantenersi. Decidono comunque di dividersi e si presentano in tribunale dove il giudice civile, al termine delle udienze, stabilisce a carico dell'uomo due assegni mensili da 250 euro l'uno per i «pargoli». La signora, invece, dovrà arrangiarsi con il suo stipendio. Considerando che lavora part-time ed ha 56 anni, i soldi che guadagna non sono sufficienti ad un'esistenza quantomeno decorosa. E così impugna la decisione in corte d'appello. E i magistrati trentini accolgono la sua richiesta: il marito, oltre a provvedere alla prole, dovrà pure versare 200 euro al mese all'ex moglie.

Di pagare, però, non ha molta voglia visto che, ha insistito in aula, la donna non ha fatto nulla per cercarsi un altro mestiere o, tutt'al più, chiedere di passare dal part-time al tempo pieno. E così ricorre per cassazione. Ma la suprema corte rigetta la «lamentela» e conferma la sentenza di secondo grado: oltre ai figli l'uomo deve aiutare, materialmente, anche quella che è stata la sua compagna di vita. Anche perché, ricordano gli «ermellini», è il marito che deve provare «le circostanze impeditive dell'assegno di mantenimento». Nel ricorso, non a caso, imputa ai giudici d'appello di «aver operato un'illegittima inversione dell'onere della prova, ponendo a suo carico la dimostrazione dell'impossibilità, per la consorte, di trasformare il rapporto di lavoro e di aver trascurato più favorevoli occasioni di lavoro laddove la prova della ricorrenza dei presupposti dell'assegno di separazione incomberebbe sul coniuge che ne richiede in giudizio il riconoscimento».

Per la cassazione, non è stata dimostrata alcuna colpa da parte dell'ex moglie nel non aver trovato un'occupazione più remunerativa. Anche perché, come detto, «ha 56 anni, una prolungata estromissione dall'attività produttiva ed ormai un'obsoleta formazione». Insomma, la mancanza di uno stipendio migliore non è certo attribuibile a mancata volontà di provarci e quindi la, chiamiamola così, integrazione al reddito è stata posta a carico dell'ex marito.

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