Un anno di terapia intensiva, il primario: "I pazienti tornano ad aumentare, il virus non si inganna, oltre ai vaccini serve stare a casa"

di Luisa Pizzini

ROVERETO - Era venerdì pomeriggio. Sul calendario 2020 del reparto di terapia intensiva dell'ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto quello (il 6 marzo) è segnato come il giorno zero. In quella data arrivò la comunicazione ufficiale che l'ospedale sarebbe diventato il Covid-center del Trentino e da quel giorno, a distanza di un anno esatto, nulla è più stato come prima.

Il primo paziente "positivo" arrivò il giorno successivo ed ora, in questo infelice primo anniversario, sono di nuovo tanti, troppi, i posti letto occupati dai pazienti che si aggravano per colpa del coronavirus. «Ad oggi sono 17 i pazienti Covid in rianimazione a Rovereto, più due non Covid: stiamo riprendendo alla grande» racconta il primario, Giovanni Pedrotti, con un tono quasi rassegnato.

Riprendono ad aumentare i casi come ci si aspettava oppure no, dottore?

«Sì, come ci si aspettava con la complicazione delle varianti che sono più contagiose e colpiscono di più i soggetti sani. Come la prima ondata».La seconda era diversa?«Aveva colpito di più gli anziani quella, è l'età che la contraddistingue».Nel vostro reparto dunque siamo di nuovo poco distanti dal picco?«Nella prima ondata era stato di 25 pazienti, nella seconda di 23. Ma ora è più impegnativo perché cerchiamo di dare risposte anche ai non Covid e servono personale e spazi dedicati».

Fuori dagli ospedali forse ora non c'è questa percezione perché non si è fermato tutto...

«Esatto, perché c'è questo finto lockdown, perché la gente che gira di fatto non viene controllata».

Voi lo invocate un lockdown?

«Noi invochiamo che le regole che vengono messe vengano fatte rispettare. Probabilmente sarebbero sufficienti in questa progressione dei contagi, ma non hanno senso se non vengono fatte rispettare. Credo siano giuste di per sè, ma penso si sia lasciato correre e capisco, la gente è stufa. Tutto ciò che è funzionale a mantenere l'attività lavorativa e far funzionare l'economia va bene, ma delle movide o delle cene ne possiamo fare a meno. Ne dobbiamo fare a meno. Sull'altro piatto della bilancia, dobbiamo tenercelo bene a mente, ci sono i morti. Stiamo attenti quindi a non invocare libertà per le cose non indispensabili perché vanno a scapito di persone che muoiono».

E voi ne avete viste parecchie, purtroppo.

«Già, ne abbiamo viste parecchie».

Ci si abitua?

«No, non ci si abitua mai. La malattia è grave e rischia di aggravarsi con l'arrivo di queste varianti che sono una selezione naturale del virus».

Come ci si protegge?

«Limitando il più possibile gli spostamenti. Devono essere motivati, il meno impattanti possibile nell'intento di garantire lavoro e scuola, non cose superflue».

Avete fatto dei passi avanti nella cura del Covid durante questo difficile anno?

«Nel trattamento sì, ma ancora non c'è la terapia che sicuramente garantirà la sopravvivenza. Abbiamo più frecce nella nostra faretra ma non sono armi di comprovata efficacia. Abbiamo capito meglio come trattare alcuni fenomeni di questa malattia, ma non abbiamo una cura risolutiva. Lo sarà il vaccino, ma ci vuole tempo».

Il vostro personale è vaccinato?

«Abbiamo vaccinato tutti quelli che hanno voluto vaccinarsi, ma tra il personale medico chi non ha voluto è una minima percentuale e c'è anche chi ha avuto la malattia che non si sa ancora bene come trattare. A Rovereto è vaccinato l'85% dei medici ed è un ottimo risultato. Un po' meno su altre categorie ma quello dipende dalla sensibilità individuale».

A proposito di personale, siete sempre gli stessi nel reparto da un anno...

«Siamo meno in realtà, perché se prima avevo a disposizione anche il personale di altri reparti che avevano fermato l'attività, ora non è più così. É giusto però, perché ci sono anche i pazienti non Covid che hanno gli stessi diritti».

Riesce ancora ad incoraggiare medici ed infermieri che lavorano con lei?

«Lo faccio, lo stato d'animo però è diverso e la stanchezza c'è. C'è la necessità continua di motivare e rimotivare le persone».

E lei, avrà pensato in questi mesi "come vorrei essere altrove... ", no?

«Sì, ci sono dei momenti in cui ti trovi a dire, scoraggiato, "non è possibile, si ricomincia di nuovo" però è il nostro lavoro e quindi ci facciamo forza. Come dico sempre ai colleghi se avessimo voluto un coinvolgimento diverso non avremmo dovuto lavorare in ospedale. Se uno sceglie di fare l'anestesista rianimatore è tenuto a reagire a urgenza ed emergenza in un determinato modo ma posso pensare che qualcuno si sia pentito d'averlo fatto in questo periodo».

Anche perché, proprio come caratteristica loro, urgenza ed emergenza ad un certo punto finiscono. Questa situazione sembra non avere fine...

«Quello che è mancato in effetti è stata la possibilità di riposarsi, di tirare il fiato. Ci sono stati tanti alti e pochi bassi».Vi siete accollati anche il compito di tenere il contatto con le famiglie.«Sì, ci siamo riusciti e so che è apprezzato. Ora abbiamo anche chi ci manda la foto della guarigione per ringraziare».

Sono i migliori testimonial di una campagna di sensibilizzazione, i pazienti che sono stati in terapia intensiva per il Covid.

«La responsabilità personale nei nostri comportamenti ci viene chiesta ancora oggi perché una leggerezza può portare alla morte di una persona. Non tutti i pazienti si salvano».L'appello lo ripetiamo alle persone quindi o più in alto?«La singola persona arriva fino ad un certo punto, ci vuole la consapevolezza anche da parte delle istituzioni che i provvedimenti messi in atto vanno fatti rispettare. Il virus non si può imbrogliare: si possono imbrogliare i carabinieri o la polizia, ma non il virus».

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