La pandemia nelle Rsa per gli operatori uno stress con conseguenze pesanti

di Chiara Zomer

Gli operatori delle Rsa sono stati in prima linea, nei mesi del Covid. E in prima linea si stava male. Quanto, lo certifica adesso uno studio della facoltà di Scienze Cognitive dell’Università di Trento, pubblicata ieri dalla rivista Royal Society Open Science: il 43% di loro presenta sintomi da moderati a gravi di stress post traumatico. A mettere nero su bianco lo studio, a cui hanno partecipato 33 Rsa del Nordest e un totale di 1.071 operatori, è stato un gruppo di ricercatori. Tra loro la professoressa Elena Rusconi, corresponding author dell’articolo e Marianna Riello, prima autrice. È stata lei ad avere l’idea, e spiega il perché: «Come ricercatrice opero con l’ospedale, ma lavoro anche in alcune Rsa. In quel periodo stavo leggendo le ricerche effettuate in Cina, in ambito ospedaliero, ma mi rendevo conto che i problemi, stress correlati, si potevano riscontrare anche nelle Rsa. Quindi ho pensato di avviare lo studio».

Per raggiungere più persone possibile, si è creato un link, in modo che tutti avessero le medesime domande, somministrate nel medesimo modo. Le Rsa di riferimento talvolta hanno fatto da tramite. Hanno risposto in tanti. Anche perché l’indagine aiutava prima di tutto loro: «Un aspetto ritenuto molto positivo della nostra indagine - spiega la dottoressa Riello - è che eravamo in grado di dare un feedback immediato, sullo stato di salute, non era solo una raccolta dati. Ogni singolo operatore sapeva se la sua situazione era stress allarmata o nella norma. E poi davamo risposte immediate per quanto riguarda la gestione dello stress».

Risposte che servivano, per altro. Secondo lo studio in questione 4 persone su 10 presentavano sintomi moderati gravi di stress. È il 43%. Per inciso, il dato della medesima indagine in Cina, effettuata con gli stessi criteri, dava risultati diversi: lì il problema toccava non più del 20, massimo 30% degli operatori. «Abbiamo inoltre rilevato che la probabilità di riportare sintomi moderati-gravi di sintomatologia post traumatica è maggiore per le donne e per coloro che hanno avuto contatti con colleghi o residenti positivi al Covid 19 - evidenzia la professoressa Rusconi - questi dati ci aiutano a individuare i gruppi che trarrebbero maggior beneficio da un intervento mirato e tempestivo. Siamo già al lavoro per sviluppare e offrire interventi adeguati con l’appoggio e la collaborazione di numerose Rsa / Case di riposo».

Quel che viene spontaneo chiedersi, è come mai negli ospedali in Cina, nel picco della pandemia, si registrasse un livello di ansia inferiore a quello nelle Rsa italiane. E la risposta, forse, è nel diverso rapporto che gli operatori hanno con i loro pazienti: «L’ambiente nelle Rsa, in quei mesi, per gli operatori è diventato ostile, per tanti motivi. Perché operavano in un settore in più occasioni criticato, ma soprattutto perché si occupavano di una popolazione fragile, colpita in modo estremamente duro dalla pandemia. Una popolazione con cui loro avevano un rapporti. Gli ospiti da molti operatori venivano chiamati “i nostri nonni”, li conoscevano da tanto tempo, si erano occupati di loro. C’è una relazione molto più stretta tra operatore in Rsa e ospite, di quanto non possa esserci tra paziente e operatore in ospedale. E quando sono state precluse le visite alle famiglie, questi operatori si sono dovuti sostituire ai familiari, per quanto possibile, nella relazione con l’anziano. In questo contesto, il senso di impotenza, per non poter alleviare in troppi casi la sofferenza, è stato forte». E si spiega quel 43% che soffre di stress con sintomi moderati o gravi. Ecco perché sembra importante prevedere dei percorsi di sostegno: «Sì, è opportuno che ci siano più interventi e più ricerca in queste strutture. Il nostro è stato l’unico studio nelle Rsa, perché manca la componente accademica. Ma è un settore di primaria importanza, che garantisce la qualità della vita degli anziani».C.Z.

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