Il fotografo Jacopo Salvi sul red carpet a Venezia

di Davide Pivetti

Chi ama fotografare almeno una volta, nella sua vita, ha sognato di trovarsi dove Jacopo Salvi, 25 anni, talento rivano della fotografia italiana, ha trascorso ben 12 giorni. Cioè gomito a gomito con i più grandi professionisti del mondo, i fotografi delle testate internazionali, delle grandi agenzie di stampa, dei più prestigiosi quotidiani. Gomito a gomito ma senza sgomitare, perché Salvi non era sul red carpet della «Mostra Internazionale del Cinema di Venezia» per l’Adige - è da anni tra i nostri fotografi Fotoshop - bensì per gli stessi organizzatori, cioè la Biennale.

Come si arriva su quella passerella di fama mondiale?
«Per piccoli passi. Alla Mostra del cinema sono approdato dopo una collaborazione con la Biennale di architettura. Hanno visto i miei lavori, li hanno apprezzati. Mi hanno proposto di occuparmi anche del festival, ovviamente ho accettato. E alla Biennale sono arrivato grazie ad un contatto scaturito da una precedente collaborazione, questa volta con il Mart di Rovereto.
Quel brivido l’hai sentito?
«Ero elettrizzato. Un bel botto. Ho presentato il mio preventivo, me l’hanno accettato, ho subito detto di sì».
Che scatti hai prodotto per la Biennale?
«Tutte le foto destinate ai social in tempo reale: Twitter, Instagram e Facebook. E qui anni di lavoro con l’Adige sono serviti: si scatta, si sceglie, si manda subito, come in cronaca. Ho imparato a lavorare con scadenze immediate, a portare a casa quello che serviva in breve tempo. Alcuni post sono arrivati a toccare 350 mila condivisioni in tutto il mondo».
Hai ritratto decine di volti famosi a livello mondiale. Quali ti hanno dato più soddisfazione?
«Lily Rose, la figlia diciassettenne di Johnny Depp, James Franco, Monica Bellucci, ma anche altri».
Come fate a non intralciarvi a vicenda in quei pochi metri del «red carpet»?
«In realtà ogni fotografo viene associato a una posizione, ci sono due gradinate, c’è un cartellino che ti dice dove devi stare. Ci sono gerarchie, ovviamente le testate più importanti hanno posizioni migliori, altri meno. Io invece scattavo per gli organizzatori, quindi ero libero di muovermi un po’ di più».
I tuoi colleghi?
«Osservare professionisti che scattano per Ansa, Reuters, Afp al lavoro ti insegna sempre qualcosa. Loro in uno scatto devono racchiudere il massimo dell’estetica, io potevo fare un lavoro più creativo, il nostro era un progetto di documentazione più “morbido” rispetto alle foto che vanno ai quotidiani e alle agenzie mondiali».
Quante foto in 12 giorni, con che camera e quali ottiche?
«Quelle selezionate sono un migliaio, consegnate in tempo reale. Scattavo poco per scegliere più rapidamente. Ho usato Canon 5D Mk III e obiettivi 70-200 e 24-70».
L’ambiente della «Biennale»?
«Sorprendentemente giovane, gente con tanta voglia di lavorare, ognuno a modo suo fa un sacrificio per essere lì: i ragazzi dell’ufficio stampa, i fotografi, tutti danno il massimo, non si sta lì a scaldare la sedia e questa condivisione della fatica si trasforma in una forma di solidarietà».
Se a 25 anni sei al Festival di Venezia dove ti immagini a 50?
«E chi lo sa? A fare il bravo fotografo da qualche parte».

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