Da Fai della Paganella alla Cina 100 giorni e 10mila km in bici

di Mariano Marinolli

Yanez Borella è tornato a casa dopo aver percorso diecimila chilometri esatti in cento giorni sulla bicicletta e sugli sci. Per la verità, considerando pure la giornata del rientro in aereo dal Kirghizistan, i giorni sarebbero 101. Partito con la bici elettrica da Fai il 18 aprile scorso, assieme al suo compagno di viaggio Giacomo Meneghello di Sondalo in Valtellina, Yanez ha attraversato tredici nazioni prima di terminare il suo viaggio a Kashgar, la città cinese nella provincia dello Xinjiang (nord della Cina).

I due alpinisti hanno pure scalato dieci vette raggiungendo i 6.800 metri, ma senza arrivare sulla cima di 7.134 metri, del Picco Lenin, nel Kirghizistan. «Mancavano appena trecento metri alla vetta, ma una forte tempesta di vento ci ha costretto a tornare a valle. Davvero un peccato», commenta Yanez.

Giunti in Cina lungo la famosa Via della seta di Marco Polo, i due atleti per tornare a casa volevano salire sul treno e raggiungere l’aeroporto più vicino, ma in cima al passo Torugart, nella catena montuosa del Tien Shan ad un’altezza di 3.752 metri, hanno dovuto tornare indietro fino alla città di Osh, nel Kirghizistan, perché privi delle necessarie autorizzazioni di transito.

«Senza una guida autorizzata non ci hanno lasciati passare - racconta Yanez - peraltro quella è una zona militarizzata e abbiamo dovuto sottostare a frequenti controlli molto rigidi».



Il ricordo più bello di questo lungo viaggio? «La cordialità della gente. Tutti a darci una mano quando avevamo bisogno, passando dai villaggi ci salutavano e sorridevano con affetto. Non ci aspettavamo così tanta accoglienza. Eravamo convinti di trovare gente ostica e indifferente».

Imprevisti? «Tanti. Però solo meccanici: rottura di raggi e catene, ma fortunatamente avevamo tutti i ricambi nel nostro carrello. Si è rotto pure il motore della bici, ma siamo riusciti a ripararlo. Io ho forato 17 volte le ruote del carrello e tre volte quelle della bici. Anche Giacomo ha subito una ventina di forature. Poi l’altro imprevisto è stato la totale mancanza di acqua nel deserto che abbiamo attraversato. Però ci siamo arrangiati in qualche modo».

Momenti di paura? «Temevamo di essere aggrediti da qualche rapinatore, invece non è mai successo nulla. Anzi: ripeto che la gente è sempre stata gentilissima nei nostri confronti; ci aiutavano persino a spingere i nostri carrelli! L’unico momento di paura l’abbiamo vissuto una notte in Bulgaria, quando un branco di lupi si avvicinava alla nostra tenda. Abbiamo smontato tutto in fretta e furia cercando di fare più rumore possibile per allontanarli e puntando nei loro occhi la luce delle nostre torce elettriche. Altri notti di paura, che ben sapevamo, nel deserto, invaso dai serpenti: ci chiudevamo di notte nella tenda per evitare di essere morsi. La paura più grande, forse, era sulle strade: davvero impercorribili, sterrate con buche profonde e gli automobilisti, soprattutto i camionisti, che non avevano alcun rispetto per noi. Ci sorpassavano imprudentemente: troppo pericoloso viaggiare in bici su quelle strade impervie e sconnesse, con il rischio di essere travolti da macchine e camion».



Nella trasferta, tra bici, salite e discese sui ghiacciai con gli sci d’alpinismo, avete compiuto la bellezza di 660.000 metri di dislivello! Roba da Guinness dei primati. «È vero. E’ stata dura, ma la soddisfazione più grande, quando siamo entrati in Cina è stata la consapevolezza di avercela fatta».

Lo rifaresti questo viaggio? «Certo! Anzi, sto già penando al prossimo anno di programmare un’altra avventura simile. Ma non voglio svelare nulla prima del tempo».

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