Grande Guerra / Lo studio

Adamello, nei ghiacci c'è ancora un arsenale di residuati bellici

L'analisi di Marco Gramola della commissione storico-culturale della Sat: ha studiato i movimenti dei militari sui ghiacciai nel periodo 1915-1918. Nelle settimane scorse si è svolta nella zona una grande operazione di recupero che ha fatto riemergere una grande quantità di materiale grazie all'impegno di una serie di corpi, sia militari sia civili

di Fabrizio Torchio

TRENTO. Dopo il recupero di una ingente quantità di residuati bellici, portata a termine a inizio settembre con l'operazione "Ghiacciaio Adamello 2003-2021", è spontaneo chiedersi quanti materiali della Grande Guerra possano ancora restituire i ghiacciai dell'Adamello.

Nelle settimane scorse, gli artificieri dell'Esercito del 2° Reggimento Genio Guastatori della Brigata alpina Julia, coadiuvati da Carabinieri e Guardia di Finanza, Soccorso Alpino e Croce Rossa militare, supportati dal Nucleo Elicotteri della Provincia e dalla Commissione storico-culturale della Sat, avevano portato a valle oltre 260 ordigni bellici esplosivi che avrebbero potuto essere ancora pericolosi.

Va da sè che chi dovesse avvistarne dovrà avvertire le autorità.

Alla domanda su come si possa avere un'idea della quantità di materiale che fu fatto arrivare su quel fronte aveva provato a rispondere Marco Gramola, della Commissione storico-culturale della Sat, che ha studiato a fondo gli eventi sui ghiacciai del 1915-18.

Attingendo dal suo archivio, Gramola ci offre ora un'idea più precisa dei movimenti di uomini e materiali sui ghiacciai riportando i dati degli osservatori austro-ungarici. Il 23 dicembre 1916, ad esempio, dall'osservatorio delle Giaere (sulla cresta che dal Gabbiolo si abbassa in Val Genova), dalle 8 alle 10 erano stati avvistati 180 uomini (italiani) con 20 slitte. Attraversavano il ghiacciaio da Passo Brizio al Passo della Lobbia Alta (3045 metri), dove sorgeva la "cittadella militare" con le caserme Giordana.

Altri 20 uomini vengono visti arrivare a Passo Lares e, dopo dei tiri di cannone verso il Tonale, alle 9.40 ecco 6 uomini sul ghiacciaio del Mandrone.

Sul crinale Lares-Passo Folgorida, alle 13.45 15 uomini si muovono da Passo Lares all'avamposto italiano al Passo del Diavolo. Alle 14, in senso inverso, si avvistano 10 uomini e alle 14.15 da Passo Brixio 200 uomini vanno al Passo della Lobbia mentre altri 20 tornano da Passo del Diavolo al Passo Lares.

È un movimento continuo di soldati e di materiali che in un solo giorno di pieno inverno si svolge a quelle altezze: alle 14.20 ecco 120 uomini da Passo Brixio a Passo Lobbia, dieci minuti dopo 10 uomini al rifugio Mandron e contemporaneamente 300 uomini da Passo Tredicesima (vicino al Monte Venerocolo) vanno al Passo della Lobbia Alta e 80 tornano al passo Brixio.

Dieci minuti dopo, 80 uomini da Passo Lares alla Lobbia Alta e cinque minuti più tardi, altri 40 sulla stessa via. Nel pomeriggio oltre una settantina di altri soldati italiani vengono avvistati su questi percorsi.

«Le Vedrette della Lobbia e del Mandrone - osserva Gramola - erano il terreno di transito delle corvée, dei rifornimenti italiani al fronte di alta quota.

Su Cresta Croce erano in batteria quattro cannoni, così come in numero minore sulla Lobbia Alta e sul Monte Fumo; le artiglierie erano state portate anche su Punta dell'Orco, Crozzon di Fargorida, Crozzo di Lares, Punta Calvi e Crozzon del Diavolo. Molto usate a partire dal 1917 da entrambi eserciti erano le bombarde che potevano essere posizionate in prossimità delle linee avversarie.

Alla vigilia dell'attacco italiano alla linea dei passi (Folgorida e Topette) il 29 aprile 1916, c'erano 40 uomini e un ufficiale al passo Lares, 20 uomini e un sottoufficiale al passo di Cavento, una mezza compagnia sulla linea dal Crozzon di Lares al Passo di Cavento, 10 uomini sul Crozzon di Lares. Da questo al Crozzon di Forgorida, 3 plotoni della 4ª compagnia 161°. Il capitano Calvi parlerà al termine dell'azione di 100 fucili recuperati e 34 prigionieri. Jakob Fischer, comandante del 161° Landsturm, dirà che "si suppone che a fronte degli oltre 400 fucili del nemico, si opponessero 100 dei nostri; una lotta impari..."».

Sulla linea dal Carè Alto al Cavento, Dante Ongari, studioso della Guerra Bianca, stima 1000 austriaci divisi fra il fondovalle e il fronte, da parte italiana erano molti di più. Per l'attacco italiano al Cavento vengono sparati oltre cinquemila colpi di artiglieria.

Nel maggio 1918, solo dopo giorni e giorni di colpi di cannone sulle postazioni austriache gli alpini conquistarono il Presena. La supremazia italiana nelle artiglierie, compresi i grossi cannoni da difesa costiera trasportati fino a ridosso del fronte, durò per tutto il conflitto, conclude Gramola: «Dopo la disfatta di Caporetto e la fine dei conflitti sui fronti orientali nei primi mesi del 1918, molti cannoni di medio calibro anche di preda bellica arricchirono le batterie imperiali nel Gruppo dell'Adamello ma tutto questo poco influì sull'esito finale della guerra.

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