Chiude la Isaf di Storo a rischio 50 posti

“Nuvole nere si addensano nel cielo dell’occupazione del basso Chiese, e precisamente di Storo, che negli ultimi anni ha già sofferto per i contraccolpi della crisi. Al centro dell’attenzione oggi è finito lo stabilimento della Isaf”. Questo scrivevamo esattamente 28 mesi fa, nel giugno del 2018. Ieri le nuvole nere facevano cadere una pioggia fredda, insistente, che non prometteva nulla di buono. E sul cavallo del mezzodì è piovuta la pessima notizia: la Isaf chiuderà i battenti. Poco meno di cinquanta lavoratori sul lastrico. Non subitissimo, perché fino alla fine dell’anno non si può licenziare, ma il destino è segnato.

Inutile dire che la botta è pesante in un tessuto industriale cresciuto dagli anni Sessanta agli anni Novanta in una delle zone industriali che, fatte le debite proporzioni, era fra le più vivaci del Trentino. Poi è cominciato lentamente, ma inesorabilmente, il declino.

La Isaf. Nata negli anni Settanta a Condino per iniziativa di un gruppo di giovani imprenditori che avevano individuato nella produzione dei fili speciali un interessante segmento industriale, crebbe e si trasferì a Storo, nella zona industriale, dove trovò una superficie più idonea. Anche perché nel frattempo gli addetti avevano raggiunto e superato quota settanta, e l’azienda aveva cambiato fisionomia. Dei giovani imprenditori dell’inizio era rimasto solo Ermanno Pizzini, che aveva acquisito due aziende in Germania ed una in Ungheria, trasformando la Isaf in uno dei leader europei della produzione di fili speciali per saldatura.

La prima svolta avvenne nella seconda metà degli anni Novanta, quando Pizzini decise di vendere. Se la fecero fuori a miliardate (sia pure di lire) due multinazionali: la francese Air Liquide e l’americana Lincoln Electric. Vinse la prima, che entrava in un settore nuovo, visto che il suo core business era il gas.

2017: i francesi capirono di doversi liberare del settore dei fili speciali, e l’americana Lincoln tornò alla carica.

Non durò molto l’entusiasmo. Già un anno dopo la nuova proprietà chiuse i due stabilimenti tedeschi. Proseguendo nel tramonto, sbarrò le porte degli stabilimenti in Portogallo e in Inghilterra. Per dirla con Paolo Cagol, della Fim Cisl, la cui voce ieri era più cupa del cielo di Storo, “Quando Lincoln ha acquisito il ramo del filo ha di fatto acquistato un competitor. I fattori che hanno giocato negativamente sono stati due: le scelte commerciali (il gruppo ha tagliato la parte cui Air Liquide teneva), e poi la crisi. Fino a febbraio in qualche modo ha tenuto, poi da marzo il Covid ha fatto il resto, aggravando ulteriormente la situazione del mercato”.

Oggi, come detto, sul lastrico rimangono una cinquantina di famiglie, che per una situazione come quella di Storo non sono poche, tanto più in un momento delicato come quello in cui si sta vivendo.
“All’inizio di marzo – commenta Cagol – avevamo chiesto un incontro all’azienda: vedevamo infatti che nello stabilimento di Arezzo si investiva e si assumeva manodopera, sia pure con contratti precari, mentre a Storo non succedeva nulla. Fino a pochi giorni fa non ci è stato comunicato niente. Ora, forse anche perché pressata dalla notizia che stava girando incontrollata, la proprietà ha deciso di darci l’informazione.

La Isaf è l’ultima stazione della via crucis e viene in un momento di incertezze sociali ed occupazionali. Il 2019 ha segnato la crisi e la chiusura della Waris e della Schlaefer, le aziende che Ermanno Pizzini aveva aperto dopo la disavventura della Nicolini, gruppo acquisito in seguito alla vendita della Isaf. Son giorni questi in cui la cartiera di Condino (acquisita tre anni fa dalla multinazionale Sappi, con sede in Sudafrica), ha messo per qualche settimana la manodopera in Cassa integrazione.
In questi anni è passata di mano (finita ad un gruppo bresciano) un’altra azienda storica: la Sapes di Storo e Condino, azienda metalmeccanica che arrivò a Storo poco dopo la Seconda guerra mondiale, impegnata nel settore dell’automotive. Come non bastasse, il settore del legno, di cui il Chiese era diventato un distretto dinamico, ha subito un costante ridimensionamento.

Volendo ritornare indietro negli anni, si potrebbe parlare delle multinazionali arrivate con grandi speranze della popolazione locale e poi improvvisamente scomparse. Ballano nella mente nomi come Lowara, Storoproductions, Jado Italia. Senza contare le aziende ed aziendine locali.
Ecco un tema per il futuro della valle: sviluppo ed occupazione. Qualcuno se ne occuperà andando oltre le chiacchiere?

comments powered by Disqus