Guerra legale sui "carboneri": la pira inquina, si potrà fare solo tre volte all'anno

di Giuliano Beltrami

La partita è finita. Possiamo dire con un pareggio? “In realtà abbiamo perso tutti”, esclama uno sconsolato Gianni Cimarolli, sindaco di Bondone. 

“Abbiamo perso tutti, perché il mestiere del carbonaio, che rappresenta il biglietto da visita, il libro di storia, la memoria e la tradizione (chiamatelo come volete) di Bondone è stato scoraggiato”.
Partiamo dalla fine. In questi giorni il Tribunale civile di Trento ha dato ragione al ricorso del Comune, obbligando le parti in causa a pagare ognuno il suo avvocato, mentre ha decretato che i ricorrenti contro il Comune paghino le spese del Comune per il ricorso.
Forse è meglio partire dall’inizio della vicenda, avviata due anni fa, con la lettera spedita (a nome di cinque censiti di Baitoni, frazione di Bondone affacciata sul lago d’Idro) da uno studio legale di Brescia al Comune di Bondone per contestare l’esistenza della carbonaia di Plos. Va detto che a Plos, luogo particolare, ad un paio di chilometri da Bondone e ad uno e mezzo (in linea d’aria) sopra Baitoni, dove arriva ogni anno la processione della sagra del 9 settembre dedicata alla Madonna e dov’è stato costruito il cimitero per i morti di peste, dal 1976 si fa il carbone.
Nella precedente consiliatura fu pure data una casetta ai carbonai.
Lettera decisa quella dell’avvocato lombardo, per dire basta alla carbonaia. “Fatela all’Alpo, dove si fa già d’estate in occasione della Festa del carbonaio. Lì è lontana da ogni centro abitato”.
Il sindaco Gianni Cimarolli risponde difendendo la scelta di Plos, la tradizione e la storia.
All’avvocato ed ai cinque ricorrenti non basta: sostengono che in fase di accensione del “Poiàt” (la catasta di legna che cuocendo produce il carbone) vengono prodotte quantità inenarrabili di polveri totali e di idrocarburi policiclici aromatici. “Quantità - rintuzza il sindaco - inferiori a quelle che Milano spara in cielo da settimane e perfino a quelle del vicino paese di Storo”. Risultato: il 10 luglio del 2019 parte il ricorso alla Magistratura.
Sempre nel mese di luglio il giudice decide la sospensiva in attesa di un accordo fra le parti. Accordo che sancisce l’accensione di sole tre carbonaie all’anno. In ottobre si torna davanti al giudice, che sentenzia: benissimo per l’accordo, tuttavia le spese di giudizio vanno tutte a carico del Comune.
“Eh no - replica il sindaco - se c’è un accordo, perché dobbiamo pagare tutte le spese noi? Spartiamo a metà”. Parte il ricorso, che (come detto) ha trovato la soluzione in questi giorni: ognuna delle parti in causa paga le spese del ricorso dei cinque baitonesi, mentre a carico di questi ultimi vanno le spese per il ricorso del Comune. E la vicenda finisce qua.
Non finisce l’amarezza del sindaco. E non finisce l’amarezza degli ultimi carbonai (eredi di una storia antica e umanamente toccante), i quali si sentono criminalizzati, ma soprattutto sentono criminalizzata una tradizione. Anche perché alla vicenda giudiziaria (come accade spesso nelle piccole comunità) è seguita una serie di maldicenze difficilmente digeribili da chi è rimasto ancorato alla passione per un mestiere che ha coinvolto generazioni di famiglie.
Non serve ricordare l’epopea di chi partiva in primavera (col mulo, le galline, le pecore e i bambini) per tornare in autunno, dopo aver lavorato nel bosco per fare il carbone. Si viveva, e si moriva, sulle montagne trentine e lombarde. Fino all’arrivo dell’industria, negli anni Sessanta. Da allora il “Poiàt” si è ridotto ad attività dimostrativa con valore storico-turistico. Continuerà?

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