Il grande Cesare Maestri tra imprese e saggezza: oggi la festa per i 90 anni

di Alberta Voltolini

Nome completo: Cesare Fabio Damiano, i nomi dei tre patrioti irredentisti Battisti, Filzi e Chiesa datigli dal padre Toni, pure lui irredentista. Cognome: Maestri.
Oppure il “Ragno delle Dolomiti, “come lo ha battezzato e affidato alla storia dell’alpinismo il giornalista e scrittore Dino Buzzati. Ancora, “Il Cesare”, come oggi lo chiamano tutti a Madonna di Campiglio dove vive dal 1963, dopo essersi trasferito dalla natia Trento, con un’estate trascorsa a Canazei e due anni passati ad Andalo; qui, prima di arrivare dall’altra parte del Brenta, insieme alla moglie Fernanda e al supporto dell’amico Rolly Marchi, costruì “La Baita”, uno dei primi ristoranti-bar con tavernetta della località turistica.

Cesare Maestri lo incontriamo, alla vigilia del suo novantesimo compleanno, nel bell’appartamento al “Savoia” di Campiglio, pieno di ricordi: fotografie, libri, lettere, riconoscimenti, premi, ritratti, i momenti gioiosi della storia di famiglia e le memorie indimenticabili di straordinarie imprese alpinistiche. E nella bella stagione lo incontri, il Cesare, “solita ora, solito posto”, a metà pomeriggio sulla panchina della centralissima piazza Righi, all’esterno delle attività commerciali oggi condotte dal figlio Gianluigi. L’età lo ha affaticato nel fisico e i suoi passi sono diventati lenti, ma lo sguardo è attento, quello luminoso degli anziani che sereni avanzano negli anni. Le sue imprese, invece, il tempo le sta amplificando. “Arrampicare è il mio mestiere” è il titolo di un libro che ha scritto nel 1961.

Oggi è stato festeggiato a Madonna di Campiglio.

Quando ha capito che l’alpinismo sarebbe stato la sua vita?

Quando Gino Pisoni (forte alpinista dell’epoca, ndr), abbracciandomi, mi disse: «Cesare, voglio iniziarti all’arrampicata». Vivevo a Trento, ai Casoni, ero un ragazzo figlio di attori di teatro e non sapevo cosa fare della mia vita. Gino, trentino di Trento come me, mi ha spinto a scalare. Con lui è iniziato tutto.

C’è stata subito sintonia tra lei e l’arrampicata?

Non solo vi ho colto facilità, ma ho capito quasi subito che arrampicavo meglio in discesa che in salita, al contrario di quanti tutti dicono.

Come è arrivato nella “Perla delle Dolomiti di Brenta”?

Tutto è nato da una testuale battuta di Gian Vittorio Fossati Bellani, allora presidente delle Funivie Madonna di Campiglio, che letteralmente mi disse: «Sempre meglio morire in un mare grande che in un mare piccolo». Sono arrivato a Campiglio seguendo quella sua battuta.

C’è una vetta delle Dolomiti alla quale è particolarmente legato?

Sì, certo, il Campanil Basso. Ne ho salito e disceso tutte le vie e aperto due di nuove: una sulla parete est insieme ad Ezio Alimonta, l’altra a nord. Sulle Dolomiti non ho aperto tante nuove vie, ma le ho ripetute tutte, dalle più facili alle più difficili. Era il settembre 1949 quando sono arrivato per la prima volta in cima al Basso (esattamente settant’anni fa, ndr), insieme a Franco Giovannini. Pensavamo di essere soli, invece incontrammo Bruno Detassis che stava per concludere la sua centesima ascensione. Con Bruno Detassis siamo stati profondamente amici. Gli ho voluto tanto bene, a lui e a tutta la sua famiglia che ricordo con affetto e stima profonda. Ho preso ad esempio il suo comportamento.

E la via che ricorda di più?

La Preuss, sempre sul Campanil Basso. Paul Preuss è stato per me il punto di riferimento, un grande arrampicatore in libera al quale ho sempre fatto appello.

Arrampicare è stato per lei “solo” un lavoro o anche uno stile di vita?

La montagna mi ha salvato la vita nel vero senso della parola. Come detto prima, mamma e papà erano attori di teatro e io non sapevo cosa fare della mia esistenza. L’arrampicata mi ha non solo riempito la vita, me l’ha salvata. Arrampicare è stato lo scopo della mia vita, mi ha permesso di scampare da tutto: dall’essere un ladro e dall’essere un poveretto, che non mi sono mai sentito. E dico questo non per essere considerato bravo, ma per essere capito.

Ha mai provato il sentimento della paura in cima alle vette?

Mi spiace dirlo, ma di paura non ne ho mai provata. Sapevo di essere bravo e nello stesso tempo devo aggiungere che ho sempre arrampicato nei limiti della mie possibilità, non sono mai andato oltre. Matto sì, ma mona no.

Come progettava la salita o l’apertura di una via? La disegnava?

Non disegnavo nulla, né scrivendo né nella mente. Sapevo che avrei scelto la via più difficile e, tra virgolette, la più significativa. Ad esempio la “Via delle guide” sul Crozzon di Brenta (aperta da Bruno Detassis, un grado VI+ ndr) sono stato il primo a farla in discesa e in libera. Cercavo di fare di più, non oltre i miei limiti, che conoscevo, ma oltre il primo pensiero che avevo fatto pensando a quella via.
Le grandi spedizioni del passato, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano impegnative fin dal viaggio che separava casa dalla base delle cime da conquistare… Ai miei tempi l’aereo costava troppo, ad esempio per raggiungere la Patagonia partivamo da Genova con la nave. C’erano almeno dieci giorni di viaggio e durante la traversata occupavo il tempo pensando a cosa sarebbe successo dopo. Una volta arrivati attraversavamo i fiumi insieme al materiale a bordo di chiatte. Una volta caddi dentro all’acqua e rischia molto. I campesinos mi aiutarono e mi prestarono i loro abiti. Peccato che mi presi anche i pidocchi.

La vecchiaia, che non le permette più di vivere la montagna e di essere attivo, la rattrista?

Non sono triste, nel modo più assoluto. Il mio motto è sempre stato “Mai mollare” e questo ho cercato di fare. Ora, “non mollare” significa per me cercare di non avere ricordi brutti. Più di quanto fatto, non lo potevo fare. La battuta è scontata: «Diventar veci l’è na gran ciavada, ma morir gioveni l’è ancor pezo».

Cosa potrebbe dire ad un giovane che oggi ha l’ambizione di fare dell’arrampicata il proprio mestiere?

C’è un impegno più grande di tutti che deve assumere: quello di diventare vecchio. Questo è il punto di riferimento al quale l’alpinista deve credere ogni volta che parte per conquistare una cima.
Tra i ricordi tangibili conservati da Cesare Maestri e oggi visibili presso il Museo delle Guide a Madonna di Campiglio, un chiodo d’oro regalatogli da Bruno Detassis nella Pasqua del 1985 e accompagnato da un biglietto nel quale il “Re del Brenta” scriveva al “Ragno delle Dolomiti”: «Nel cinquantenario della “Via delle Guide”, a te che l’hai percorsa per primo in discesa e in libera, questo chiodo a ricordo dell’impresa. È anche un bel ricordo per la mia centesima al Basso, quando tu salivi per la prima volta ed io scendevo».

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