L'intervistissima a Checco Moser: il Giro, i ricordi, la bici, Ignazio e il sogno di un'Italia divisa in tre...

di Paolo Micheletto

Del suo Giro d’Italia - quello magico del 1984, con il trionfo all’Arena di Verona - Francesco Moser ricorda tutto. Dalla prima pedalata al boato finale dei tifosi, mandati in estasi da una delle più belle rimonte dello sport: il Checco nazionale che a cronometro strappa la maglia rosa al francese Laurent Fignon - che ad Arabba, due giorni prima, aveva fatto l’impresa - e vince la corsa rosa. Una vittoria che ha reso immortale il campione di Palù di Giovo e che lui stesso mette al primo posto nel suo palmares: «Vincere il Giro d’Italia è ancora più importante del Mondiale», ricorda.

Il Giro che è partito venerdì scorso a Bologna ha alcuni punti in comune con l’edizione dominata da Francesco Moser: un anniversario “rotondo” (35 anni) e l’arrivo in Arena, nel cuore di Verona, anche se al termine di un percorso diverso: pianeggiante nel 1984 e piuttosto nervoso, con il passaggio sulle Torricelle, quest’anno. Moser - intervistato alla sede dell’Adige di via Missioni Africane dal direttore Alberto Faustini e dai giornalisti Guido Pasqualini, Stefano Parolari, Maurilio Barozzi, Pietro Gottardi e Andrea Tomasi - ha scelto di ripercorrere per i nostri lettori l’impresa rosa: «Il 1984 è stato un anno pazzesco. È stato l’anno del record del mondo e della Milano Sanremo. Sull’onda di questi successi si decise di puntare forte sul Giro d’Italia, rinunciando alle classiche del Nord. Prima del Giro sono andato alla Vuelta, dove ho vinto il prologo e ho tenuto la maglia per una settimana, vincendo una tappa a Santander e facendo secondo al tappone».

Moser, ci ricordi le tappe principali del suo Giro.
Iniziamo con il prologo di Lucca, che vinco. Prendo la maglia rosa. Il giorno dopo c’è la cronometro a squadre, ma perdiamo tanto: i ho cognesti aspetar, perché bisogna arrivare almeno in cinque e alcuni dei miei si attardano. Il giorno successivo, quello della tappa Marina di Pietrasanta - Firenze, al mattino mi telefonano per dirmi che è nato Carlo: e alla sera torno su e vado a salutare la moglie e il piccolo alle Camilliane. Dormo a casa e il giorno dopo raggiungo il Giro a Bologna, per la tappa che come quest’anno si conclude a San Luca: vince Argentin.
Poi si scende a Sud.
Si riprende con una tappa lunghissima, la Bologna - Numana che si conclude in volata. Ricordo bene la fuga di un corridore americano, ripreso proprio nel finale.
E quindi la sua impresa sul Blockhaus, nel Parco della Majella. Su una delle salite più dure d’Europa lei arriva secondo, superato solo da Moreno Argentin, stacca Fignon e si riprende la maglia. Una giornata da scalatore vero.
Fignon va in crisi e si stacca. Ci sono Lejarreta e Beccia già davanti e io mi metto a tirare. Mi raggiunge Argentin, che vince la tappa senza aver mai collaborato. Se mi avesse dato una mano avrei potuto guadagnare qualche secondo in più.
Quel giorno si capisce che può essere l’anno giusto per vincere il Giro.
Il Blockhaus in effetti è una salita vera, molto lunga. E il giorno dopo vinco la tappa di Foggia, con una volata di gruppo. Erano importanti anche gli abbuoni, ogni occasione andava sfruttata al massimo.
Poi c’è la tappa di Pisticci: il gruppo, dopo una serie di cadute, decide di fare sciopero e di non disputare la tappa.
Sì. E anche quella tappa avrebbe potuto portare abbuoni, anche perché il percorso non era proprio pianeggiante. Lo sciopero è condiviso da tutti, solo che lo svizzero Urs Freuler decide a cento metri dall’arrivo di fare il m. e di andare a vincere. Solo un m. come chel lì poteva fare una roba del genere, perché un altro furbacchione come il suo direttore sportivo, Franco Cribiori, gli aveva detto che si doveva fare la volata. Lo stesso Freuler vince anche la tappa del giorno dopo, con arrivo ad Agropoli: una tappa tremenda, sotto la pioggia. Riesco a stare in piedi a fatica durante la sprint, ma ricordo che i corridori mi sorpassano scivolando a terra. Quindi altre tre tappe e si arriva alla giornata di riposo che precede l’ultima settimana.

Ha sempre fatto discutere la scelta di non passare per lo Stelvio. Ma va ricordata una frase di Francesco Conconi: il medico disse che lei in verità è stato penalizzato da quella decisione, perché sopra una certa quota avrebbe reso meglio, grazie anche alla preparazione effettuata a Città del Messico.
A me la decisione degli organizzatori andava bene, ma va detto che per arrivare a Merano la tappa sarebbe stata ancora molto lunga, con possibilità di recupero. Non so se Fignon avrebbe guadagnato molto, del resto il versante non era nemmeno il più duro. E le condizioni erano proibitive: quando siamo arrivati a Bardonecchia (sedicesima tappa, 3 giugno 1984, ndr) c’era un freddo incredibile. All’arrivo vedevo torbol: mi si era ghiacciato il nervo ottico. Ho avuto bisogno di qualche minuto per recuperare la vista. E verso Lecco abbiamo avuto acqua tutto il giorno.
Poi arrivano due tappe difficili. Selva di Val Gardena e quindi Arabba, con Fignon che le strappa la maglia.
Già a Selva c’era stato qualche segnale, in effetti. Il giorno dopo Fignon fa un attacco strepitoso: qualche corridore, come Lejarreta, Baronchelli e Argentin, rimane con me ma nessuno mi aiuta. Se qualcuno mi avesse dato una mano il vantaggio di Fignon non sarebbe stato così ampio. Argentin ad un certo punto è pure scattato. Faceva sempre il furbo.
Non ci sembra il suo collega preferito, Argentin.
Sì, ma dopo l’ha pagata. Alla Sanremo sono andato a prenderlo e gli ho detto: «Adesso sono qui, arrangiati».
Lei pensa di aver pagato la sua forte personalità? Nel gruppo non aveva molti amici, soprattutto tra gli italiani.
L’unico vantaggio per un corridore importante può venire dalla squadra, se è in grado di controllare la corsa. Altrimenti si arrangia e fa quello che può. Certo, qualcuno che mi ha dato una mano l’ho trovato, ma non tanti. Merckx aveva uno squadrone che tirava per tutta la corsa, a me non è mai capitato. E non mi è mai successo di estrarre a sorte per stabilire chi vince alla Parigi - Roubaix (il riferimento è alla Mapei, ndr).
Torniamo al Giro. Siamo alla tappa che precede la crono di Verona, la Arabba - Treviso. Lei lancia un segnale importante, buttandosi nella volata finale: terzo posto. Come per dire a tutti che il Giro è tutt’altro che perso.
Fignon aveva fatto un’impresa ma si sapeva che in pianura non andava. Prima dell’arrivo di Treviso parlo con Bontempi e Rosola, i due velocisti più forti di allora. Dico loro che mi interessano gli abbuoni. Un aiuto ci poteva stare, ma finisce che i due mi chiudono e quasi mi buttano a terra. Se si fossero rialzati, come eravamo mezzi d’accordo, avrei potuto vincere e prendere l’abbuono pieno.
Il precedente di Milano era incoraggiante. Lei aveva vinto la quindicesima tappa, a cronometro, con un vantaggio di 1’28” su Fignon, nonostante una foratura.
Ho bucato a sette chilometri dall’arrivo, e di sicuro ho perso venti secondi almeno. Nelle altre cronometro avevo dato tre secondi a chilometro a Fignon, sempre. I conti erano quelli: poi è chiaro che i numeri bisogna confermarli sulla strada.
Cosa ricorda delle ore che precedono la crono di Verona?
Al mattino facciamo il percorso da Soave, provando due biciclette, quella normale e quella con le ruote lenticolari, che avevo utilizzato anche al prologo di Lucca. C’era il rischio del vento, ma nel pomeriggio abbiamo fatto la scelta della bici da cronometro, che si è rivelata vincente: un po’ di vantaggio te la dà.
Quanto?
Può darti un secondo a chilometro. Nell’altra crono avevo dato tre secondi a Fignon, utilizzando solo la ruota lenticolare posteriore, che è quella che è scoppiata a Milano. Qualcuno ha detto pure che mi sono fermato apposta per cambiare la bici: una balla clamorosa.
L’entrata in Arena al Giro del 1984 è stata l’emozione più forte della sua carriera?
Sapevo di essere in vantaggio, perché dalla macchina mi davano tutti i tempi necessari, ma in una gara a cronometro sei sicuro della vittoria solo dopo che è arrivato anche il tuo avversario. Il boato della gente rimane un grande ricordo, come il sostegno dei miei tifosi lungo tutto il percorso. C’erano tantissime persone. E anche dopo la vittoria del Giro, alla sera sono tornato tra la mia gente di Palù, come sempre.
Tra le sue vittorie mette il Giro d’Italia al primo posto?
Sì, il Giro lo metto al primo posto.
Più del campionato del mondo?
Sì. Ma quando un corridore può dire di aver vinto il Giro, un mondiale, le Roubaix, la Sanremo, più della singola corsa vale l’insieme. Ognuna di queste vittorie completa un mosaico di successi nel quale metto anche i record dell’ora, che hanno la loro importanza. Certo, il Giro era un successo che dovevo conquistare, anche per dare una risposta a quelli che dicevano che non l’avrei mai vinto.
A proposito di record dell’ora. L’Uci ha cancellato le sue imprese.
Una commedia. Danno l’idea di restare in piedi di notte per studiarle tutte. Hanno sospeso i record, poi però sono ripartiti e quindi ancora li hanno unificati, senza tener conto tra l’altro che l’altura conta, eccome: ma i miei record restano tutti.
Nel ciclismo di oggi lei vincerebbe di più o di di meno di quanto ha fatto?
È difficile dirlo. Prima di tutto nelle corse a tappe fanno il doppio delle salite: non sarebbe di certo il mio percorso. È vero peraltro che è cambiato tutto, a iniziare dalle biciclette. Oggi non ci sono molti atleti che spiccano, e ormai le grandi squadre programmano tutto: hanno trenta corridori e chi punta al Tour de France si prepara solo per quell’appuntamento. Noi partivamo all’inizio della stagione e facevamo tutto il calendario: non tutte le gare all’estero, naturalmente, ma in Italia sì. E le corse avevano grandi lunghezze, spesso sui 200 chilometri e oltre.
Gli ultimi dieci anni sono stati dominati dal ciclismo anglosassone.
Hanno cambiato persino la lingua ufficiale del ciclismo: prima si parlava francese, adesso inglese. Il nostro era un ciclismo più legato alla tradizione, ora tutti gli schemi sono stati rotti. Sono gli effetti della globalizzazione, che non si possono fermare.
Anche i metodi di allenamenti sono stati rivoluzionati.
Fare chilometri in allenamento è un metodo che vale sempre, allora come oggi. Gli strumenti legati alla tecnologia però sono del tutto diversi, e uno che è in grado di usarli bene può arrivare ad essere preparato meglio. Il metodo di base è più scientifico.
Lei è stato un innovatore nell’uso di un metodo più scientifico nella preparazione. Il team di esperti, guidato da Francesco Conconi, che l’ha seguita per il record dell’ora di Città del Messico era il massimo, per l’epoca. Infatti la preparazione è servita molto, soprattutto in salita. Lo stesso record mi ha dato un grande ritmo: non a caso abbiamo fatto due mesi di allenamenti specifici. Ma già nel 1980 avevamo impostato un lavoro specifico con un preparatore scelto da Teofilo Sanson, il polacco Zmuda, che mi ha portato a una condizione eccezionale: ho vinto la Roubaix e avrei potuto vincere anche il Fiandre, se il meccanico di Thurau non mi avesse buttato a terra, oltre alla Tirreno - Adriatico e altre gare. Con Zmuda avevo fatto una preparazione che assomigliava a quella del record dell’ora.

Quali sono i suoi favoriti per il Giro d’Italia di quest’anno?
Penso prima di tutto a Nibali ma anche a Demoulin, che si è prerarato apposta per il Giro. Roglic potrebbe essere la sorpresa. Moscon non ci sarà: è un po’ uscito dai radar e non ho capito perché non ha proseguito con la crescita dell’anno scorso.
Suo nipote Moreno non riesce ad uscire da una crisi che sembra infinita.
Moreno smetterà di correre se non trova le cause di questo suo non rendimento. È scarico di tutto, non si sa se è questione di cervello o di altro. Qualcuno aveva parlato di un virus... Su di lui c’erano molte speranze, ma tutto ad un tratto ha smesso di essere competitivo e non si capisce perché.
A proposito di testa: quando conta per un ciclista?
Il carattere conta quando un corridore dimostra di essere capace di passare sopra le sconfitte e le avversità, che possono essere di tanti tipi, come ad esempio una caduta.
Correre una corsa a tappe da capitano o partecipare da gregario: si tratta di due sport diversi.
Completamente. Il capitano ha la responsabilità di se stesso e degli altri e deve avere la mentalità del risparmio, che peraltro io non avevo. C’erano corridori che addirittura contavano le pedalate: non ne facevano una di più del necessario.
Cosa pensa dell’Italia di oggi?
Penso che in Italia dovrebbe comandare uno solo, e basta. E si dovrebbe permettergli di fare un programma di cinque anni. Ho sentito che il presidente Mattarella ha denunciato che l’Italia ha un un debito alto: ma lo sanno anche i sassi, e da tempo serve una vera politica di tagli, mentre ogni anno ne inventano una nuova. Alla fine sono sempre quelli che lavorano a venire penalizzati. Ma il mio progetto per l’Italia è chiaro.
Quale?
Tornare indietro di 200 anni. Penso all’Italia divisa in tre parti: il Nord, il Sud e lo Stato pontificio, con Lazio e Abruzzo al papa. E ogni parte si arrangia: se al Sud vogliono fare i loro comodi lo fanno senza problemi. Non ci sono altre strade. E anche la Chiesa non può solo comandare e fare annunci: deve prendersi le proprie responsabilità.
Cosa pensa degli immigrati?
Ghe n’aven chi davanz. Se vengono e lavorano è un conto, ma se ci tocca mantenerli è un altro. Gli italiani in passato hanno lasciato il nostro Paese, ma l’hanno fatto per andare a lavorare: li tenevano nelle baracche e facevano una vita molto dura. In Italia non è così: una volta gli immigrati vendevano le borsette, adesso non si sa nemmeno cosa fanno. L’Italia non può certo salvare l’Africa. Gli altri chiudono i confini, noi invece apriamo tutto: non va bene così. Io penso che andrebbero aiutati a casa loro. Che imparino a fare qualcosa.
Il suo politico preferito, quindi, è Matteo Salvini.
Salvini parla abbastanza bene, ma si è messo insieme ai Cinque Stelle e uno tira da una banda e uno dall’altra. Alla fine i resta desquerti.
La delusione più brutta della sua carriera qual è la stata?
Il secondo posto al Mondiale 1978, ma anche il secondo posto al Giro d’Italia 1979, quello vinto da Saronni, che all’inizio si era messo molto bene.
Lei anche quest’anno partecipa al Giro d’Italia come testimone Mediolanum.
Sì, lo faccio da quindici anni. Assieme a me in questa edizione ci sono Fondriest, Bettini, Motta e Ballan. Quando posso vado ancora in bicicletta e mi tengo allenato. Poche settimane fa sono stato in Oman, un posto davvero ideale per andare in bici, non solo per la temperatura giusta.
Lei è stato assessore provinciale al Turismo. Qual è il suo rimpianto maggiore di quell’esperienza?
Il collegamento Campiglio - Andalo. In Alto Adige l’avrebbero già realizzato da anni: loro hanno capito che il turismo va fatto in una certa maniera e sono più bravi di noi.
Francesco Moser ha di sicuro altri progetti nella sua vita che è stata così intensa.
Altri progetti? No, vorrei solo iniziare a riposare. Non l’ho mai fatto in vita mia. L’azienda agricola va bene: per fortuna adesso c’è Carlo che la gestisce, ma io ci sono sempre, perché le vigne non vengono mica su con il computer, come pensano i giovani.
E negli ultimi due anni avete avuto anche Ignazio come uomo immagine.
Se stesse a casa a lavorare sarebbe meglio... Non so quanto può durare la vita che sta facendo: deve tornare a fare i mestieri che servono qui a casa. Questo vorrei che capisse. Ho cercato di guardare quella trasmissione (il Grande Fratello vip), ma non ho resistito nemmeno un minuto. Ripeto: deve decidere cosa vuole fare.

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