Moser torna all'Arena di Verona 35 anni dopo il trionfo

di Maurilio Barozzi

Francesco Moser è nello stesso tempo Achille e Odisseo. Come Achille ha avuto la forza e la crudeltà sportiva di prendere tutto ciò che poteva prendere, comprese le spoglie del nemico. Come Odisseo ha avuto l’ardire di affrontare il mare ignoto e superare le Colonne d’Ercole, sperimentando su se stesso tutte le novità che s’affacciavano sul suo mondo. Il mondo del ciclismo.

Moser è stato l’ultimo eroe di un ciclismo d’antan. Un ciclismo fatto di dualismi che ricordano la rivalità tra Achille ed Ettore: Coppi-Bartali, Merckx-Gimondi, Moser-Saronni. Un ciclismo dal calendario incorniciato tra la Milano-Sanremo e il Giro di Lombardia. Un ciclismo in cui le squadre erano composte da una decina di corridori che ad ogni gara si ritrovavano sul nastro di partenza col numero sulla schiena e il coltello tra i denti.

«Oggi i team sono composti da 30 atleti: nello stesso periodo dieci vanno al Giro d’Italia, dieci vanno in Turchia e dieci vanno in California o dove altro... Due compagni di squadra rischiano di vedersi solo due o tre volte l’anno» sorride Moser.

Moser è però stato anche il pioniere del ciclismo moderno. Un ciclismo che sperimenta tecnologie, spinge al limite i parametri fisiologici, programma in maniera maniacale gli allenamenti. «Con il dottor Conconi avevamo ideato le ripetute in salita a bassa intensità. Avevamo studiato l’effetto della ruota lenticolare per il record dell’ora in Messico, ruote che ho poi usato anche al Giro d’Italia. Adesso tutte queste innovazioni sono state migliorate: un atleta ha a disposizione delle strumentazioni tecnologiche che permettono di raggiungere uno stato di forma che è vicinissimo al cento per cento. Un grande vantaggio che però può anche essere un limite: quello stato di forma si può tenere soltanto per un periodo limitato, poi inevitabilmente c’è un crollo. Anche perciò molti atleti scelgono di fare solo alcune gare, in diversi periodi dell’anno» spiega ancora Moser.

Oggi, a trentacinque anni dalla vittoria del Giro d’Italia entrando all’Arena di Verona accolto da un boato che pareva il ruggito dal cielo di Zeus, Moser può ripensare a quei momenti con distacco. Anche stimolato dall’arrivo 2019 che - proprio come allora - incoronerà il vincitore di nuovo all’Arena dopo una frazione a cronometro.

Ha una memoria bestiale, Moser. E ripensando alla sua esperienza in rosa ripercorre tappa per tappa la cavalcata che lo portò ad aggiungere al suo grondante palmares di classiche anche la più celebre corsa a tappe d’Italia. Ricorda come, dopo aver vinto il cronoprologo a Lucca, fu costretto a svestire il simbolo del primato già il giorno successivo, a Pietrasanta. «Era una cronometro a squadre e nella Gis avevamo alcuni corridori che proprio non andavano: bisognava aspettarli per poter arrivare sul traguardo» ridacchia ancora divertito. Divertito solo perché ormai sa che poi tutto si è aggiustato al meglio e quel ricordo può essere relegato sullo scaffale degli aneddoti.

Ricorda poi la frazione di San Luca, a Bologna, «una salita dura che dovemmo scalare ben tre volte. Vinse Argentin».

Il giorno dopo riprese la maglia rosa sul Block Haus: non era solo un corridore da classiche o da pianura, Moser. «Diciamo che in quel Giro le montagne non erano molte ed era anche per quel motivo che decisi di puntare alla vittoria finale. Avevo vinto la Sanremo ed ero andato alla Vuelta di Spagna proprio per prepararmi. Oggi è tutta un’altra cosa: le salite che inseriscono nei grandi Giri sono davvero tante e se non sei uno scalatore è difficile riuscire a vincere».

Secondo Roland Barthes l’onomastica contribuisce all’epica. Infatti anche Moser ha un soprannome che lo avvicina agli uomini: “Checco”. Ma forse, per rituffarci in Omero, il patronimico che lo identifica meglio è “Sceriffo”. Tanto che, ricorda, «a Freuler cantai quattro ostreghe quando nella tappa di Marconia di Pisticci scattò e vinse in volata. Avevamo deciso di arrivare tutti assieme al passo per protestare contro la segnaletica difettosa e invece lui se ne fregò e scattò». Meglio non essere stati nei panni dello svizzero, a fine giornata.

L’epica si alimenta anche di imprese sovrumane, di resistenza agli agenti atmosferici spediti sulla terra dagli dei. E il freddo che gli irrigidì le mani nella discesa di Bardonecchia è qualcosa che Moser racconta rendendolo addirittura palpabile. «Al traguardo non sentivo più il corpo, faticavo a respirare e vedevo tutto a macchie torbide. Mi ci vollero alcune ore per riprendermi».

Ci vuole anche onestà, per entrare nell’epica. E Moser ammette che quando nella diciannovesima tappa, la Lecco-Merano, gli organizzatori decisero di togliere lo Stelvio dal percorso gli «fecero un favore».
Sul Pordoi, a tre tappe dalla fine, il mito poteva incontrare la tragedia. Tutti gli amanti del ciclismo conoscono a menadito quella tortuosa salita che è stata teatro di decine e decine di Giri d’Italia e di magnifiche sfide tra campioni. Lassù è nata la leggenda di Fausto Coppi che tra gli anni Quaranta e Cinquanta è transitato davanti a tutti sul Passo per ben quattro volte.

Quel venerdì otto giugno sul Pordoi c’era radunata quasi tutta Palù di Giovo, la piccola frazione dove abita Moser. Un paese che respira ciclismo da anni: prima di Francesco sono stati corridori professionisti i suoi fratelli Aldo, Enzo e Diego - poi c’è stato Simoni - e i compaesani sono abituati ad andare a far festa alle gare. Ma, nell’occasione, il primo a presentarsi al Passo fu il francese Laurent Fignon, il principale avversario di Moser. Fignon era riconoscibile perché portava occhialini rotondi come un professore di scuola e i capelli lunghi raccolti in un codino biondo. A dispetto dell’aspetto mite, era un osso duro: l’anno prima aveva vinto il Tour de France e quel giorno, al Giro, seguiva Moser in classifica generale di un minuto e tre secondi. Il fatto è che stava giungendo solitario sul Pordoi, e ciò significava che lo svantaggio era stato colmato. Però Moser non mollava.

«Eravamo lì dietro in due o tre. Non ricordo bene, mi pare ci fossero Marino Lejarreta e pure Argentin. Quei due non mi hanno mai dato una mano nei tratti di falsopiano».

E - dice ancora Moser - neppure Guidone Bontempi, il giorno dopo, lo ha aiutato. Con il suo occhio sempre vigile e ben fisso sull’obiettivo, “Checco” avrebbe preteso che Bontempi gli lasciasse la volata di Treviso, la penultima tappa «non per la vittoria, ma per gli abbuoni», precisa. Infischiandosene del fatto che una tappa al Giro può significare una carriera e Bontempi non aveva ancora vinto nulla in quella Corsa rosa. «Beh» aggiusta allora il tiro «però almeno potevano evitare di stringermi: quasi quasi lui e Rosola mi facevano cadere».

Nel lessico di Moser la disfatta non esiste. E quando capita - può essere anche travestita da secondo posto o terzo - bisogna subito reagire. «Non si può subire la sconfitta. Bisogna combatterla. Anche allora non ho mai perso la fiducia di vincere il Giro: sapevo che potevo riprendere la maglia a Fignon nell’ultima cronometro: già in quella di Milano gli avevo dato tre secondi al chilometro, che sarebbero stati quattro, considerando il tempo che ho perso per una foratura».

In effetti è andata così: Moser ha vinto. E l’ingresso all’Arena di Verona ha messo il punto esclamativo su una carriera sensazionale con, tra le altre cose, tre Parigi-Roubaix di fila, un Campionato del mondo, due Lombardia, la Freccia-Vallone, la Gand-Wevelgem e, in quel marzo anche la Milano-Sanremo.

Dopo l’amarcord, Moser torna al Giro d’Italia 2019, che parte sabato da Bologna ed arriverà a Verona: «Dumoulin è un corridore molto completo. Poi penso sempre a Nibali. Mi piacerebbe vedere anche Moscon, ma non so bene che cosa gli stia succedendo: non lo vedo più in nessuna corsa...».

Mentre parla, Moser artiglia ancora il tavolo come fosse un manubrio con le sue mani nodose e forti - contadine. Occhieggia a destra e a manca con gli occhi vispi quasi a cercare un erede in questo nuovo ciclismo che lui vede distante da sé ma che ha contribuito a far nascere e crescere. Poi scrolla il capo. No, nell’attuale ciclismo eredi non ne ha. Le sue 273 vittorie sono un fardello troppo pesante per chiunque. E Moser, dopo esser stato Achille e Odisseo, non è riuscito ad essere Anchise.

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