Pandemia / La storia

Il Covid, la rianimazione: «Mi davano per morta», ma 25 giorni dopo è risorta: "Ho perso 17 chili, mi sono caduti i capelli, poi mi sono risvegliata"

Daniela, 50 anni, e il tragico racconto di un inferno: le hanno fatto fare l’ultima telefonata al compagno: «Ho detto: ci rivediamo. Adesso devo imparare tutto, anche a tenere un cucchiaio in mano»

di Matteo Lunelli

TRENTO. Gli occhi verdi, di tanto in tanto, si riempiono di lacrime. Ma non succede mai quando sta parlando di lei e di quello che ha vissuto. Succede quando parla degli altri, di medici, infermieri e oss che l'hanno salvata o del compagno e dei familiari che l'ha aspettata per tanti giorni o dei parenti e degli amici che ha potuto riabbracciare.

«Ho avuto una seconda occasione, sono potuta tornare a casa: ora sono in debito con la vita e non voglio rinunciare a questa possibilità».

Lei se l'è vista brutta. Davvero brutta. Venticinque giorni in ospedale, diciassette in Terapia intensiva, undici intubata, «perché dopo qualche ora si sono accorti che il casco non bastava».

Poi i giorni della riabilitazione, il dover imparare di nuovo ad alzarsi in piedi o a sollevare un cucchiaio per nutrirsi. Ma non è finita, e adesso ci sono i capelli persi nell'arco di pochi giorni, gli acciacchi, le visite di controllo e gli esami.

Lei è Daniela, un cinquantenne che vive in Valsugana. E che ha deciso di raccontarci la sua drammatica avventura, in maniera vera e sincera, come è lei. Lo fa con il sorriso di chi c'è l'ha fatta e con gli occhi lucidi di chi sa di essere stata vicina a non poter raccontare nulla.

Lo fa con l'espressione felice di chi ha mantenuto fede a quelle parole dette al compagno nell'ultima telefonata, quella prima di essere intubata e sedata. «Spero di rivederti...», disse.

Lei è Daniela, dicevamo. Ma la sua storia potrebbe essere simili a quella di centinaia di trentini, migliaia di italiana, decine di migliaia di persone costrette dal Covid a lottare tra la vita e la morte. Lei ce l'ha fatta, tanti altri no. «Sono sempre stata attentissima. Mascherine, distanze, tanti mesi senza uscite con gli amici. Una piccola bolla in famiglia, come tanti altri.

Poi, per un impegno di lavoro con un'amica, il virus è arrivato. Abbiamo ricostruito tutto il "cluster", partito probabilmente da un ragazzo. La mia amica non si dava pace, si sentiva ingiustamente colpevole. L'11 febbraio scorso il tampone dà esito positivo: un po' di febbre la notte, ma durante il giorno stavo bene, lavoravo al computer anche se ero in malattia. Anzi, siccome lavoro nell'ente pubblico, il mio compito in quei giorni era aiutare gli anziani nelle prenotazioni online della vaccinazione.

Poi la notte tra il 16 e 17 febbraio ho iniziato a peggiorare. Il saturimetro non misurava più nulla: lo usava il mio compagno e funzionava, lo usavo io e non segnava nulla, come se fosse andato in tilt. Alle 7 è arrivata l'ambulanza. Poco prima ho fatto una doccia e appena finito di farla mi sentivo come se avessi fatto una maratona. Ero stravolta. Mi hanno portata a Borgo, ma immediatamente sono stata dirottata sul Santa Chiara, in malattie infettive. Ma in quel reparto sono rimasta un attimo: dovevo andare in Terapia intensiva». Poche ore, quindi, e la situazione precipita. Daniele da qualche linea di febbre notturna si ritrova nel reparto di cui tutti sentiamo parlare da mesi e mesi. La saturazione è bassissima, meno di 70. Le fanno i raggi e degli esami. Poi le mettono il casco per facilitare la respirazione e ci racconta di questo rumore, costante e forte.

Ma anche quello non basta: i medici si riuniscono velocemente e decidono. Daniela sente parte del dialogo e capisce che deve essere intubata. Allora i medici chiamano a casa e avvertono: la situazione è critica. Poi le dicono che tocca a lei chiamare: «Signora, può telefonare a casa: la ventilazione non è sufficiente e dobbiamo intubarla. Ci rivediamo tra qualche giorno ma intanto lei telefoni e saluti».

«Ricordo la telefonata al mio compagno, ricordo quel "spero di rivederti". Poi un messaggio a mio fratello. Poi non ricordo nulla.

Ho saputo dopo che i primi due o tre giorni erano quelli più delicati. Ogni giorno dal reparto telefonavano a casa, intorno alle 13.30: una chiamata semplice e gentile, per dire se ero stabile, peggiorata o migliorata. Una volta o due hanno chiamato in ritardo, un'ora o due dopo, perché erano impegnati a salvare altre vite. E per il mio compagno ogni minuto di attesa era un pensiero terribile e ogni ora era un incubo. Mi ha detto che sono stati interminabili quei dieci giorni. Quando sono stata intubata c'erano 25 pazienti Covid in Rianimazione: io ero il +1 nella schermata del telegiornale di quel giorno. Quando sono uscita dal Santa Chiara ce n'erano 49 di pazienti in quel reparto».

Daniela ripercorre quello che le è accaduto. A volte sospira, ma ti guarda sempre fisso negli occhi. E i suoi occhi verdi si illuminano quando parla dei medici, degli infermieri, degli oss. Quelli che l'hanno salvata, quelli di cui non sa nemmeno il nome e non sa che faccia abbiano. Quelli che «non toccatemeli per tutto il resto della vita. Li vedevo sfiniti che correvano avanti e indietro, ma mi hanno lavata e accudita, fatta sorridere e consolata. L'empatia non è da tutti: avevano dieci stanze, forse di più, piene di pazienti come me, ma ci prendevano cura come fossimo in una famiglia. Di quelli in Rianimazione ricordo solo gli occhi. Occhi che parlavano. Quando mi hanno svegliata mi hanno detto che stavo bene, che avevo avuto il Covid, che ero in ospedale. Io non ero lucida, ricordo una sete incredibile, mi ricordo che non riuscivo a muovere le gambe e le braccia e non potevo parlare. Ho perso 17 chili e non avevo più muscoli. Poi ho visto tutte le lucine dei vari monitor e ho pensato che fosse Natale. Volevo provare a scrivere perché avvertissero a casa che ero in ospedale, ma non riuscivo. Mi impegnavo ma poi sul foglio c'erano solo tre righe».

Il peggio è passato, ma non è ancora finita. Dopo qualche giorno Daniela viene trasferita in Malattie infettive e inizia il percorso di riabilitazione. Le si fa forza, si impegna e brucia le tappe. Di notte fa esercizi nel letto e lentamente, molto lentamente, torna a parlare e impara di nuovo a tenere un cucchiaio in mano e a mettersi seduta.

«Un medico ha riacceso il mio telefono e me l'ha dato. C'erano quasi 400 messaggi. Nessuno mi aveva dimenticata, anzi. Ho pensato a quei funerali dove vedi un sacco di gente e capisci che le persone ti hanno voluto bene. Ecco, io ho avuto un funerale da viva, tanti hanno partecipato alla mia esperienza. Ora posso dire che tutte le prospettive cambiano, che ho capito che tutto può finire in un attimo. E allora mi pongo diversamente con gli altri, faccio una passeggiata in più e esco a bere un caffè in più. Mi sento in debito con la vita. Ho avuto un'occasione in più e voglio, anzi devo spenderla».

A metà marzo, venticinque giorni dopo, Daniela esce dall'ospedale. A inizio aprile, dopo Pasqua, esce per la prima volta di casa per una passeggiata con il girello: cento metri all'andata e cento al ritorno. E a metà maggio ritorna al lavoro. Non è ancora del tutto finita, perché gli acciacchi ci sono ancora e le visite continuano. Ma a breve Daniela avrà un nuovo appuntamento: «Poco ma sicuro: il vaccino lo faccio. Appena mi danno il via libera lo faccio eccome. E a chi ha delle perplessità mi sento di dire che nessuno ha il diritto di salvarsi da solo».

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