Salute / Ricerca

Parkinson: lo studio trentino su una nuova, possibile terapia

La ricerca, condotta dal team di Giovanni Piccoli, è partita dallo studio di una rara forma ereditaria ed è stato pubblicato sulla rivista “Brain”
LE FOTO Il team di ricercatori al lavoro

TRENTO. Studiando una rara forma ereditaria della malattia di Parkinson, alcuni ricercatori dell'Università di Trento hanno descritto un nuovo meccanismo patologico alla base della malattia che potrebbe in futuro essere sfruttato in chiave terapeutica anche per le forme non genetiche.

Il lavoro è pubblicato sulla rivista Brain, e ha visto il supporto del programma carriere della Fondazione Telethon, l'Istituto Telethon Dulbecco. Si stima che nel mondo siano oltre 10 milioni le persone colpite dalla malattia di Parkinson, che nella maggior parte dei casi ha insorgenza del tutto sporadica, anche se esistono anche rare forme familiari di origine genetica.

Il gruppo guidato da Giovanni Piccoli ha studiato una particolare proteina espressa sia nel cervello che in altri tessuti, LRRK2, che quando presenta la mutazione G2019S è responsabile di circa il 10 per cento delle forme genetiche di Parkinson.

Il team di ricercatori dell'Università di Trento che sta combattendo il Parkinson

Lo studio dell’Università di Trento, finanziato da Fondazione Telethon, apre nuove prospettive per la comprensione dello sviluppo delle malattie della terza età. Una ricerca partita dallo STUDIO di una rara forma ereditaria. Nelle foto, il team di ricerca composto da Francesca Pischedda, Maria Daniela Cirnaru, Luisa Ponzoni, Michele Sandre, Alice Biosa, Maria Perez Carrion, Oriano Marin, Michele Morari, Lifeng Pan, Elisa Greggio, Rina Bandopadhyay, Mariaelvina Sala e Giovanni Piccoli.

Con lo studio i ricercatori hanno scoperto che un particolare enzima in presenza della mutazione precipita e forma aggregati proteici che, a lungo andare, danneggiano le cellule nervose. Alla luce di questi risultati, i ricercatori hanno verificato un possibile meccanismo per contrastare il fenomeno, l'autofagia.

“Si tratta di un meccanismo intrinseco di cui dispongono tutte le cellule che permette di eliminare sostanze di scarto o dannose, come per esempio gli aggregati proteici potenzialmente tossici”, spiega Piccoli.

“Gli studi sull'autofagia, a partire dal lavoro del premio Nobel Yoshinori Ohsumi hanno permesso di identificare farmaci in grado di stimolarlo. Nel nostro caso, ci siamo concentrati su uno zucchero naturale, il trealosio, che abbiamo provato a sfruttare per stimolare l'autofagia. Il trealosio si è in effetti dimostrato efficace nel ridurre l'aggregazione proteica, la morte cellulare e i difetti motori e cognitivi nei diversi modelli preclinici di malattia. La possibilità di stimolare l'autofagia rappresenta quindi una strategia terapeutica promettente”.

«Abbiamo scoperto che una volta fosforilato da LRRK2, NSF precipita e forma aggregati proteici che, a lungo andare, danneggiano le cellule nervose non solo nei gangli nella base, ma anche in aree cerebrali cruciali per la memoria e l’apprendimento, come per esempio la corteccia e l’ippocampo - spiegano Francesca Pischedda e Maria Daniela Cirnaru, le ricercatrici che hanno condotto la maggior parte degli esperimenti. I risultati sperimentali hanno infatti evidenziato come nei modelli preclinici della mutazione G2019S di LRRK2 l’aggregazione di NSF possa essere alla base dei difetti motori e cognitivi tipici della malattia di Parkinson».

Il lavoro dell’Università di Trento, svolto in collaborazione con lo University College of London, l’Università di Padova e il CNR di Milano, conferma dunque il ruolo chiave dell’autofagia nelle malattie dovute all’aggregazione proteica. Ulteriori studi saranno necessari per trasformare questi dati in una reale opportunità clinica.

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