Dopo chemio e protesi alla gamba Michele sogna l'Iron Man

di Matteo Lunelli

Un sogno, un obiettivo, una scommessa, una sfida: riuscire a fare l’Iron Man, la competizione più dura del mondo. Quella per super uomini, per quelli di ferro appunto. Ma quella di Michele Grieco non vuole essere una celebrazione di fisicità, una esibizione muscolare o una manifestazione di atletismo esasperato. Tutt’altro: lui vuole dimostrare a se stesso e a chi lo circonda che anche una persona con una protesi alla gamba può affrontare e superare 3,860 chilometri di nuoto, 180,260 chilometri in bicicletta e 42,195 chilometri di corsa. Vuole dimostrare che anche lui può essere un iron man nonostante la sua iron leg (un gioco di parole tra uomo di ferro e gamba di ferro).

E vuol finalmente vedere come una cosa positiva la malattia che ha dovuto affrontare quando aveva dodici anni. «Se non avessi la protesi e facessi l’Iron Man sarei uno come tanti altri. Mentre io proverò a fare quella gara proprio perché ho una protesi: è lei, in fin dei conti, che mi ha spinto a mettermi alla prova. E poi per un 10% del mio corpo sono già di ferro: adesso basta preparare il restante 90 per cento...».

Michele, ventisette anni, sorride quando racconta della sua malattia, ma è serio quando parla dell’impresa che lo attende. Sa che sarà dura, durissima. Sa che ha davanti almeno un paio d’anni di sacrifici e sudore. E per quello parla della gara senza volerla in alcun modo sottovalutare. Ci spiega anche che il fine ultimo, più importante e decisivo per la sua sfida, è benefico: non può ancora spiegare tutto il progetto nel dettaglio, ma basti sapere che in ballo c’è un’importante raccolta fondi e campagna di sensibilizzazione e solidarietà. Le motivazioni e la fatica sono personali, ma il premio finale sarà per gli altri.

«Quando avevo dodici anni ho iniziato a sentire male alla gamba. Pensavamo fossero normali sviluppi nella crescita ma poi, dopo qualche mese, mi hanno consigliato di fare una radiografia. Esito: osteosarcoma. Più semplicemente tumore alla gamba sinistra. Con i miei genitori siamo andati in ospedale a Padova. Cure, trattamenti, i cicli di chemio. Poi, a Bologna, l’operazione: un nuovo femore, di ferro, per tornare in piedi. L’alternativa era l’amputazione. Ma non è finita: per 4 mesi sono rimasto fermo, poi altri 6 mesi per riprendere a camminare, con allenamenti e fisioterapia. Sono stati due anni difficili, ma sono stato sempre stato trattato come un adulto, sapevo esattamente cosa mi stava succedendo e le difficoltà che avrei dovuto affrontare».  

Michele torna a casa e riprende la vita di tutti i ragazzini di quell’età, con l’aiuto di mamma e papà e dei due fratelli più grandi, Andrea e Luca. I dottori gli vietano di correre e gli dicono di stare attento. Ma come si fa a proibire il calcio a un quattordicenne? Infatti lui, di nascosto, va a giocare. «Mia mamma mi avrebbe ucciso se lo avesse saputo», sorride. «Ma sono anche convinto che quel mancato rispetto delle regole mi abbia aiutato, perché nel tempo la gamba ha reagito molto bene, diciamo che la protesi ha aderito benissimo ai tessuti». Michele studia, termina le superiori a San Michele, poi diventa «tecnico superiore del verde» al termine di un corso di tre anni, trova lavoro nella progettazione e manutenzione del verde urbano, va a vivere con la fidanzata Sara e suona la chitarra. Una vita normalissima. Ma qualcosa gli frulla nella testa. La spinta decisiva e la scintilla che accende l’idea hanno un nome e un cognome: Alex Zanardi.

 

«Come tutti ne avevo sentito parlare, ma qualche mese fa ho iniziato a leggermi tutte le sue interviste e la biografia, a guardare i suoi video, a cercare i filmati delle sue imprese. Alcune delle sue frasi mi hanno sconvolto, in senso positivo. Mi sono detto che in fin dei conti anche io oggi potrei essere come lui: a me l’operazione è andata bene e posso camminare. Ma anche io posso superare i miei limiti. Anche io posso vivere una sfortuna come un’opportunità. Lui è un atleta formidabile, con una forza di volontà pazzesca. Quando l’ho visto tagliare il traguardo dell’Iron Man e girarsi immediatamente per chiedere “che tempo ho fatto?” ho deciso».  

Michele inizia a informarsi, a capire, a studiare tabelle di allenamento. «Va detto che la mia comfort zone non è certo la palestra, piuttosto il bar... Però ho deciso. Da qualche mese, dopo l’ok dei medici, ho iniziato gli allenamenti: palestra praticamente tutti i giorni, due volte alla settimana bicicletta e due volte piscina. Il tutto prima di andare al lavoro, grazie alla piscina che apre alle 6, o la sera, sabati e domeniche comprese. Oltre, naturalmente, a una dieta ferrea. Sono andato da un personal trainer, Alessandro Consoli, e gli ho detto semplicemente “Voglio fare l’Iron Man, la gara più dura e difficile del mondo, e ho una protesi alla gamba che non mi permette di correre. Mi aiuti?”. Lui mi ha dato fiducia, dicendomi che sarà difficilissimo e che dovrò superare ogni mio limite mentale e fisico, ma che lui c’è. Come c’è Sara, che mi sopporta e mi supporta, che mi prepara le porzioni giuste per rispettare la dieta e che mi vede crollare la sera sul divano stanco dopo gli allenamenti. E come ci sono i miei genitori, i miei fratelli e i miei amici. Poi mi servono da stimolo anche quelli che mi dicono che non ce la farò. Il mio percorso è appena iniziato: ho perso già parecchi chili e massa grassa, la protesi sta reagendo bene e non sento fastidio. A luglio farò la prima prova: dalla Cà Rossa a Caldonazzo a nuoto, poi in bici fino a Bassano, e poi indietro con camminata veloce, perché non posso correre, fino a Primolano. È più o meno una mezza Iron Man, vedremo come va. Il sogno è fare nell’estate 2019 la gara a Pescara, appunto una mezza Iron Man, e l’anno dopo andare alle Hawaii a fare quella vera».

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