«Minori e social: i genitori devono studiare per aiutarli»

di Chiara Zomer

Nascondere il cellulare ai figli non è la soluzione. La soluzione è studiare il mezzo, e studiare quel che i ragazzi ci fanno. Il che significa, soprattutto, studiare i social network e poi insegnare ai bambini e ai ragazzi come usarli. È questa la tesi di «Nasci, cresci e posta», libro che il giornalista Simone Cosimi ha scritto, assieme allo psicologo Alberto Rossetti. E di questo Cosimi parlerà, oggi, con Valeria Balbinot, nell’ambito del dialogo sul tema «Famiglie digitali».

Intanto, perché questo libro?

«Questo libro nasce per una serie di ragioni. La più importante è che non c’era nulla di questo tipo. E poi non ci piaceva tanto il modo in cui questi argomenti venivano trattati dai media».

Perché?

«Liquidano un po’ troppo semplicisticamente un tema complesso. Si crede che basti tenere i ragazzi lontani dai telefoni per risolvere il problema. Non è così. Non serve eliminare l’hardware, ma conoscere il software».

E i genitori lo conoscono?

«Spesso no. Ci illudiamo che mandarci un messaggino Whatsapp o scrivere un post su Facebook ci dia competenza. Ma non è così. Spesso nei genitori manca la consapevolezza del lato B del social network. Pensiamo allo scandalo di Cambridge Analytica. Cosa fare per difendersi sui social network, impostazioni per la privacy: nel libro spieghiamo tutto».

Spiegate anche che serve prudenza.

«Molti non sanno che aprendo una pagina Facebook si firma una licenza di secondo livello. Significa che Facebook con quei contenuti fa quel che vuole. Compresa la moda dello sharenting compulsivo, con le foto dei nostri figli costantemente mostrate agli amici»

Difficile aiutare i propri figli a capire un mondo che non si conosce.

«Sì, il problema sta nei linguaggi. Gli ambienti digitali cambiano velocemente: sono posti su cui io che ciclicamente ne scrivo, devo passare ore per vedere cosa è cambiato. Lo stesso devono fare i genitori, gli educatori. Per preparare il cammino occorre sporcarsi le mani, capire i luoghi digitali dei ragazzi, impararne la grammatica».

A proposito di preparare il cammino. C’è un’età in cui cominciare?

«Ormai l’età è intorno ai 10 anni, ma è un discrimine elastico. Può anche darsi che un ragazzino sviluppi una competenza interessante, e sia divertente accompagnarlo, perché no, su piattaforme particolari. Per esempio: se è bravo a disegnare, perché non cogliere l’occasione e creare un profilo Instagram che gestiamo assieme a lui? Se ha 9 o 11 anni cambia poco. È il senso della presenza su social che cambia. Il discrimine, come età, dovrebbe uscire dalla  consapevolezza dei genitori. Certo dopo una certa età sei estromesso dagli amici, se non sei presente sui social, quindi il prezzo rischia di essere persino più elevato. L’estromissione non funziona quasi mai. Serve una presenza accompagnata».

E come vivono i ragazzi la loro vita virtuale? Sanno che è collegata a quella reale?

«Le dimensioni sono oramai sovrapposte, ti basta guardarli per strada per capirlo. I ragazzi hanno un’interazione sempre molto accentuata, tra loro, ma magari mentre parlano, in una mano hanno lo spartphone che sta mandando un video».

Motivo in più per accompagnarli in un percorso di consapevolezza. Ma è fattibile? Ascoltano ancora gli adulti?

«Devo guadagnarmi un’autorevolezza. In generale, al di là della questione social, quando tu dimostri di sapere di quel che parli, sei uno di loro, perché sanno che possono parlare con te la lingua che parlano tra di loro. Allora ti ascoltano. In caso contrario no. I ragazzini escono da Facebook perché lì sono arrivati i padri e i nonni. Vanno a cercarsi ambienti lontani. Ma sono ambienti che sono lì, solo che serve sporcarsi le mani, cercarli. Se non si conoscono, non si possono seguire con attenzione i ragazzi».

Lei prima parlava di reale e digitale come due dimensioni sovrapposte. Ma, talvolta, quella digitale viene amplificata: pensiamo alle prese in giro.

«Sì. Spesso le piattaforme digitali scombussolano cose che non sono così drammatiche. Creano una sceneggiatura. Monta, in qualche modo, molto più che dal vivo».

E qui vien da pensare al bullismo, e al senso diverso che ha la parola sul web.

«Sì, ma non si devono confondere le prese in giro con il cyberbullismo. Il cyberbullismo è una cosa seria. Non è che ogni battuta è cyberbullismo. La consapevolezza generale non serve solo ad evitare problemi nell’immediato, anche a non inquinare temi importanti».

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