Assistenza ad anziani e non autosufficienti tra badanti e soluzioni tampone fai da te «Un peso insostenibile per le famiglie»

di Patrizia Todesco

Di solito passano anni dal momento in cui gli anziani (ma non solo loro) stanno bene e sono autosufficienti a quando perdono completamente l’autonomia e possono dunque, se le famiglie lo richiedono, essere accolti dopo un lungo iter nelle aziende per i servizi alla persona (Apsp). Anni nei quali di loro si occupano i familiari, in particolare i cosiddetti caregiver. All’inizio sono un supporto, un aiuto. Poi i caregiver finiscono per annullarsi, per non vivere più per riuscire ad accudire il familiare disabile.

Casi rari? No, sono la realtà di moltissime famiglie. Perché se è vero che il Trentino dispone del maggior numero di posti letto per abitanti, che sono state implementate le cure domiciliari, che esistono i centri diurni, tutto questo non è sufficiente quando gli anziani non sono in grado più di farsi da mangiare, lavarsi, vestirsi. Se perdono la memoria e le malattie degenerative li trasformano in persone incapaci di gestirsi da sole.

Sulla questione è intervenuto Renzo Dori, presidente associazione Alzheimer Trento che testimonia come, ogni giorno, l’associazione riceva telefonate o incontri donne che si sentono isolate e prive di auto concreto. «Di fatto - dice - il sistema di welfare risulta inadeguato o del tutto assente. Per questo ci sentiamo di sottolineare l’insostenibilità del carico di cura che fa ammalare anche il caregiver».

«In Trentino le persone anziane in stato di fragilità o parziale non autosufficienza sono circa 46.000 e quelle non autosufficienti circa 10.000. Abbastanza noto è anche il fatto che il nostro sistema di welfare assegna storicamente alla famiglia il compito di cura dei propri componenti. Questo impianto è entrato in una crisi profonda in parte dovuta all’assottigliarsi della struttura familiare (famiglia a Trento formata mediamente da 2,2 componenti), all’aumento notevole dei single e, per contro, alla crescita esponenziale, in conseguenza del fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, dei carichi assistenziali», spiega Dori.  

Per l’ex presidente della Apsp di Povo questo modello è andato in crisi e molte famiglie sono «schiacciate» dal dovere di prendersi cura del familiare non autosufficiente. «Non va poi sottaciuto che nell’85% dei casi chi si prende cura, il caregiver familiare, è una donna, moglie, figlia, nuora, nipote. In assenza di aiuto dai sistemi di welfare state, pressate dall’emergenza, le famiglie hanno cercato di tamponare una situazione insostenibile con soluzioni “fai da te” attraverso il badantato che in provincia di Trento ha assunto dimensioni veramente significative con oltre 6.000 collaboratrici familiari».

Anche le badanti, però, fanno quello che possano perché spesso il loro lavoro si limita  alla sorveglianza e non al «care». Quando subentra l’Alzheimer, poi, la situazione precipita.  Una patologia che incide per 1,5% fra i 65 e 69 anni per raddoppiare al 3% nell’intervallo di età fra i 70 e i 74 anni, per raddoppiare al 6% fra i 75 anni e i 79 anni, per raddoppiare ancora e giungere al 12% fra gli 80 e i 84 anni e raddoppiare ancora al 24% fra gli 85 e 89 anni oltre tale intervallo di età, la percentuale si attesta fra il 35% e il 45%. «Questa serie di percentuali ci porta a dedurre che i malati di Alzheimer in provincia di Trento sono circa 5.000/6.000 e che circa l’85% dei casi viene assistito, per gran parte della durata della malattia (mediamente 12 – 14 anni), a domicilio da un familiare (donna) o più d’uno coadiuvati, non sempre, da una badante» spiega Dori sottolineando che l’onere di cura che si fanno carico questi familiari aumenta con il progredire della malattia cronico-degenerativa come l’Alzheimer.

«Una volta su tre , il caregiver fa tutto da solo, nella metà dei casi può contare sull’aiuto saltuario di altri familiari e solo il 14% si appoggia ad un aiuto esterno. L’impegno è tale da entrare di fatto in “collisione” con il proprio lavoro, con la propria attività professionale tanto da costringere la donna che si prende cura del familiare, prima a richiedere il par time e poi suo malgrado il licenziamento, rinunciando di fatto ad un suo diritto, ad una sua vita».
Il caregiver finisce per diventare «vittima» dell’amore che prova per il suo familiari, del bisogno del bisogno di cura dell’altro. «La caregiver familiare diventa un tuttofare che deve accudire, somministrare le terapie, sbrigare pratiche burocratiche diventando spesso “vittima” di questo grande carico di lavoro. L’intensità dell’impegno diviene tale da rimandare le proprie visite mediche di controllo, si mangia in fretta e male, si dorme poco, ci si isola con la persona assistita perdendo legami affettivi e familiari, subendo uno stress psichico che subdolamente attiva malattie come la depressione o la sindrome da burnout».

L’appello di Dori è che si definiscano urgentemente «nuove modalità e più pregnanti di forme di tutela-aiuto non solo sul fronte della salute, ma anche sul fronte dei diritti della persona. Queste donne caregiver sono così brave nel prendersi cura degli altri da arrivare a trascurare se stesse, mentre invecchiano insieme alla persona malata». Dori sottolinea che queste persone, con il loro quotidiano impegno, consentono il funzionamento e la sostenibilità del sistema salute, per questo non possono essere lasciate sole. «È tempo che una società civile riconosca questo loro ruolo non solo in termini solidaristici e umani, ma anche sul piano dei diritti irrinunciabili della persona».

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