Protonterapia, la dottoressa che cura i bimbi: "Diploma e medaglia ai piccoli pazienti coraggiosi"

di Patrizia Todesco

Ci sono abbracci che valgono più di mille parole come quello della mamma di un bambino di 3 anni che ha appena terminato le sue sedute di Prontonterapia con la dottoressa Barbara Rombi. In quell’abbraccio c’è il grazie dei genitori, c’è la riconoscenza, c’è la gratitudine dell’intera famiglia, ma dall’altra c’è anche l’affetto sincero di un professionista e dell’intera equipe che hanno dato l’anima durante la terapia, i complimenti dello staff ai genitori per aver saputo reggere il grande stress e implicitamente la rassicurazione che per qualsiasi cosa loro saranno lì.
Il Centro di Protonterapia di Trento non è più la cattedrale nel deserto di qualche anno fa. Ora i pazienti arrivano qui da ogni parte d’Italia e del mondo. Molti sono bambini per i quali, attualmente, c’è una lista d’attesa.
La dottoressa Barbara Rombi, insieme alla collega Sabina Vennarini, si occupa proprio dei più piccoli, dei bambini. A supporto, oltre a tutto lo staff della Protonterapia, c’è anche un gruppo multidisciplinare che si riunisce una volta in settimana e del quale fanno parte quattro pediatre che si occupano di oncologia, una psicologa e un gruppo di anestesia.


Dottoressa Rombi, al Centro di Protonterapia di Trento non vengono curati solo bambini trentini ma arrivano ormai anche da fuori dall’Italia?
I trentini sono una minima parte. Arrivano da Bologna, Roma, Firenze, Sardegna, Piemonte, Roma ma anche dalla Slovenia, dalla Grecia, dal Brasile e iniziamo ad avere qualche contatto anche con la Cina. Attualmente sono in trattamento nove pazienti, vanno dai 2 anni il più piccolo a 17 il più grande.
Due anni. Piccolissimo. Quale è il paziente più giovane che avete avuto in cura?
Un bambino di 11 mesi. Era un bambino greco che faceva simultaneamente anche la chemio. Un percorso particolarmente complesso.
Lei è medico, donna, mamma. Come riesce ad affrontare ogni giorno tanta sofferenza?
I bambini sono maestri in questo. Lo studio ti porta a ragionare per causa-effetto, ad avere una visione quantistica e asettica delle situazioni. Ma di fronte ai bambini e ai loro genitori, a volte disperati e disarmati, tutto cambia. Il nostro è un lavoro estremamente appagante e con loro anche le certezze che molti medici pensano di avere vengono meno. Sappiamo che non sempre le cose vanno come vorremmo e non tutti i bambini potranno guarire, ma sappiamo anche che dobbiamo accompagnarli nel miglior modo possibile.
Non si sente mai impotente di fronte a questi casi?
No, il mio lavoro è il presente. La maggior parte di questi piccoli pazienti viene qui e dopo la cura sta bene. La protonterapia non aumenta la sopravvivenza ma diminuisce la tossicità delle cure acute e a lungo termine. Soprattutto nelle sedi più delicate, penso alla testa ma anche alle zone vicine a organi delicati quali l’apparato riproduttivo e il cuore, è importante danneggiare il meno possibile la parte sana.
Dopo trenta sedute di terapia con i bambini e le famiglie si crea un legame indissolubile. Cosa prova quando li vede andare via?
Vince sempre il desiderio di immaginarli tornare a casa tra i loro affetti. Durante il trattamento c’è sempre una forte tensione. Alla fine del periodo di cura è una festa. C’è sempre un momento di saluto nel quale al bambino viene consegnata una medaglia e un diploma per il coraggio. Il tutto si conclude con un grande abbraccio. I genitori che arrivano piangendo dalla preoccupazione poi se ne vanno piangendo per il sollievo che provano.
Lei, insieme alla sua collega e allo staff, avete curato molti piccoli pazienti. Più di cento. Si ricorda il primo?
Certo che me lo ricordo. Ma forse più il secondo. Era piccolo, era un paziente che veniva sedato e che aveva una grande complessità dal punto di vista tecnico e clinico.
E adesso come sta?
Sta bene. La mamma continua a tenermi aggiornata anche sui controlli a cui viene sottoposto per controllare gli eventuali i danni provocati dalle cure. Gli studi hanno dimostrati che con i protoni i danni sono limitati soprattutto per quanto riguarda il deficit intellettivo e di memoria e i risultati dei nostri pazienti sembrano confermarlo.
Quali sono le domande che i bambini le fanno più frequentemente?
Dipende da quanto sanno della malattia e dall’età. Io credo che sia importante parlare con loro, spiegare perché devono affrontare certe cure altrimenti, soprattutto i più grandi, captano le cose, cercano su internet e trovano quel che trovano. Se i genitori hanno difficoltà ad accettare, non metabolizzano, accade che i bambini capiscano comunque che c’è qualcosa che non va, ma non dicano niente per proteggere i genitori. Sono dinamiche strane. È comunque sempre utile parlare con i bambini, spiegare che devono affrontare una malattia seria, ma che ci sono cure efficaci e un’equipe che li aiuterà. I bambini spesso danno un nome al loro male e poi chiedono se è brutto e se guariranno. C’è un bambino che diceva di avere un «Hitler» nella testa e che doveva sterminarlo. Un altro, piccolissimo, lo chiamava «lallo», faceva finta di soffiarlo fuori dal naso e noi di calpestarlo.
E lei cosa risponde ai bambini che le chiedono se guariranno?
Che ci sono buone probabilità e spiego anche loro che io non dico bugie e che di me si devono fidare.
I bambini hanno paura di morire?
Hanno più paura del male fisico, ma ci sono anche bambini che temono la morte, come ci sono bambini che hanno piena consapevolezza del loro destino.
Come si riesce a non portarsi a casa le sofferenze di questi piccoli e delle loro famiglie?
Non si riesce. I miei figli sanno che vado a visitare bambini che non stanno bene e sanno che se talvolta mi vedono assente o preoccupata è perché penso a loro. Quotidianamente mi chiedo se ho fatto il possibile e mi rispondo che di più non potrei fare. E questo mi rincuora.
Obiettivo dell’intera equipe della Protonterapia è curare. Ma non solo. Avete messo in atto tantissimi servizi per rendere il percorso più umano possibile.
Certamente curare è la priorità, ma dobbiamo anche far vivere bene ai piccoli pazienti e alle loro famiglie il tempo che passano lontano da casa, sradicati dagli affetti, dalla scuola e dagli amici. Bisogna che nonostante tutto abbiano una buona qualità di vita anche perché a volte queste famiglie, in un ambiente diverso dove stanno insieme moltissime ore al giorno, ritrovano equilibri perduti.
Un’ultima domanda dottoressa. L’ho vista abbracciare quella mamma ed è stato emozionante. È importante il contatto fisico con i pazienti?
È importante soprattutto con i genitori. Ci sono momenti, penso al primo incontro quando deve essere firmato il consenso informato, che sono devastanti. Di fronte al pianto di una mamma o di un papà non ci sono parole. Solo dopo un abbraccio, cuore contro cuore, si può ripartire creando quell’alleanza tra famiglia e equipe utilissima per tutti.

comments powered by Disqus