Dall'alluvione a Vaia

di Fabrizio Torchio

«L’alluvione del 1966 aveva colpito in particolare la Val Cadino, causando 60mila metri cubi di  schianti sul territorio del Demanio forestale, e altrettanti su quello della Magnifica Comunità di Fiemme. La tempesta Vaia nell’ottobre del 2018 ha ripercorso quelle zone abbattendosi sulle fustaie adulte, bosco di abete rosso, piantate in gran parte dopo il ‘66».

Oltre 50 anni dopo i grandi schianti causati dall’alluvione che mise in ginocchio Trento e il Trentino, con la stessa direzione del vento di allora, in Val Cadino “Vaia” è tornata a colpire le medesime superfici. A rilevare il parallelismo fra i due eventi, e l’impatto avvenuto su aree dove il bosco è più presente e rigoglioso rispetto al passato, è Mario Cerato, laureato in scienze forestali e già dirigente del Servizio Bacini Montani e del Servizio Conservazione della Natura della Provincia autonoma di Trento.

Dei parallelismi fra l’alluvione del 1966 e la tempesta Vaia parlano anche Donato Nardin, allora amministratore delle foreste demaniali e Paolo Kovatsch, che lo è oggi, in un video della Fondazione Museo Storico del Trentino, di Lorenzo Pevarello.

Cerato è l’autore di un volume corposo, di 530 pagine, presentato su questa pagina, Le radici dei boschi. La questione forestale nel Tirolo italiano durante l’Ottocento (Publistampa) ed ad ogni presentazione pubblica - di fatto conferenze sullo stato dei boschi e la loro storia - riempie le sale di spettatori. «La circolarità nel bosco - osserva l’autore - sta ovunque: nell’aria, nell’acqua, nel legno, nel terreno. Dalla dinamica circolare dei boschi dipende la vita del pianeta».

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Ci siamo quindi rivolti a lui per provare a descrivere l’evoluzione dei boschi del Trentino negli ultimi due secoli, e per inquadrare “Vaia” considerando che, premette l’autore, «nell’Ottocento lo sfruttamento della montagna ad opera della pianura è avvenuto per la richiesta di legname, carbone, metalli. Nel secondo dopoguerra si è passati dalla selvicoltura agronomica, di produzione, a quella naturalistica, con boschi disetanei, più misti, il più vicini possibile ai modelli naturali».

Partiamo dal primo Ottocento, dalla fine del Principato?

«Con il Principato i boschi erano gestiti dalle comunità attraverso le Regole, ognuno aveva il proprio Saltaro e c’era una autoregolazione dei boschi e un controllo sociale. Nel 1810 nasce il governo moderno: con il passaggio ai Comuni il bosco è più esposto alle esigenze degli enti che devono pagare scuole, assistenza, il che comporta un maggiore sfruttamento, con la richiesta della pianura e il commercio».

Come veniva gestito il bosco?

«Fino a metà Ottocento c’è una fase di caos: la gestione amministrativa è in capo ai Giudizi distrettuali e gli uffici forestali hanno poche forze. A metà ’800 i boschi cedui del basso Trentino vengono tagliati ogni 10 anni e sono poco più che cespugli; il maggior rischio idrogeologico è poi alla base delle alluvioni, la peggiore delle quali avviene nel 1882. Per certi versi si può paragonare a Vaia perché investe un territorio che va dal Trentino al Veneto, al Vorarlberg, al Tirolo e alla Carinzia».

Una data spartiacque?

«È una cesura politica e gestionale: dopo il 1866, con il passaggio del Veneto all’Italia, il Trentino diventa terra strategica per la difesa e l’Impero Austro-Ungarico investe denaro nei rimboschimenti. Il bosco viene visto inoltre come ambito di lavoro e l’alluvione rende evidente il dissesto. L’Impero crea degli uffici di specialisti e procede al miglioramento del bosco. Quando l’alpinista inglese Douglas W. Freshfield scende in Val di Tovel dal Grostè incontra centinaia di persone con cesti di fragole, il che significa che il bosco era molto rado. Il taglio del bosco della Flavona viene ultimato nel 1845, seguito da un taglio ulteriore. La ripresa del bosco è a macchia di leopardo, le zone più sfruttate sono quelle che gravitano verso la pianura».

Meno a Paneveggio?

Paneveggio, foresta dell’Impero, viene sfruttata ma attraverso la pianificazione, c’è consapevolezza delle piante di pregio. Anche le foreste del Primiero sono demaniali, ma i Comuni ottengono il diritto all’uso interno, della popolazione. Già nella prima metà dell’800 nascono contenziosi per avere la proprietà, vengono istituite delle commissioni e una prima quota di boschi passano ai Comuni intorno al 1840».

Arriviamo al Novecento e alla Prima guerra mondiale, una nuova ferita?

«Soprattutto lungo il fronte, dove ci sono i forti, si taglia il bosco e si lasciano le piante a terra come ostacolo per il nemico, favorendo l’infezione di bostrico. A Paneveggio, fra tagli e schianti da vento, nel 1924 vengono recuperati 200mila metri cubi di legname».

Arriviamo così al Trentino nel Regno d’Italia

«Con la Milizia forestale, nel periodo fascista la politica è contraddittoria. Da una parte si dà lavoro proseguendo quanto iniziato dall’Austria, piantando ad esempio pino nero, e pino silvestre, nelle zone aride dove altre specie non crescono. Dall’altra c’è l’autarchia, con la ripresa dello sfruttamento. Nella Seconda guerra mondiale il Trentino è gestito dall’Ufficio del legname di Oderzo, il legname viene acquistato a scopi militari e per le industrie».

Quando nasce la selvicoltura naturalistica?

«Negli anni Cinquanta, dopo aver sentito parlare del modello svizzero. Nel 1957 gli ispettori forestali vanno a vedere e tornano convinti della bontà della scelta. La scuola svizzera e la scuola francese hanno dimostrato che i boschi disetanei, anche con minor quantità per ettaro, hanno incrementi maggiori. C’è più luce, più attività biologica. Le funzioni del bosco oggi sono essenzialmente tre: produzione, protezione idrogeologica e ambientale-ricreativa».

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