Cinema in lutto, Franco Zeffirelli si è spento oggi a 96 anni

È morto Franco Zeffirelli. Il regista aveva 96 anni.

»Non avrei mai voluto che arrivasse questo giorno. Franco #Zeffirelli se ne è andato questa mattina. Uno dei più grandi uomini della cultura mondiale. Ci uniamo al dolore dei suoi cari. Addio caro Maestro, Firenze non ti dimenticherà mai», scrive il sindaco Dario Nardella su twitter.

Franco Zeffirelli, all'anagrafe Gian Franco Corsi Zeffirelli, è morto stamani nella sua casa di Roma, sull'Appia Antica, assistito dai figli adottivi Pippo e Luciano, da un medico e dal parroco della chiesa di San Tarcisio che ha benedetto la salma.

Circa una settimana fa, secondo quanto si apprende dalla famiglia, aveva ricevuto l'estrema unzione.

«Si è spento serenamente - riferiscono i familiari - dopo una lunga malattia, peggiorata negli ultimi mesi».

Il maestro Zeffirelli, dopo i funerali di cui stabilire ancora luogo e data, riposerà nel cimitero monumentale delle Porte Sante di Firenze, città dove era nato il 12 febbraio 1923.

La camera ardente sarà allestita in Campidoglio a Roma.


 

In passato la regina d’Inghilterra ha fatto baronetti anche artisti popolari come i Beatles o Elton John. Ma Franco Zeffirelli, scomparso all’età di 96 anni (era nato a Firenze il 12 febbraio 1923), è stato l’unico regista italiano che poteva fregiarsi del titolo di cavaliere dell’ordine dell’impero britannico (KBE) da quando l’ambita onorificenza gli fu appuntata nel novembre del 2004. Si faceva volentieri chiamare Maestro e certamente, da fiorentino purosangue, amava pensarsi come il rigoglioso frutto di una bottega che ebbe in Luchino Visconti il primo maestro.
Era appena diplomato all’Accademia di Belle Arti quando il principe milanese lo volle per allestire le scene teatrali di ‘Troilo e Cressidà (1949) per poi chiamarlo, come assistente, sul set di ‘La terra tremà. Cominciava così un sodalizio vitale, burrascoso e fecondo che coinvolse gli affetti di Zeffirelli, la sua formazione estetica, la sua carriera. Senza Visconti, probabilmente il giovane orfano (il padre lo aveva riconosciuto solo quando aveva 19 anni, la madre morì quando era bambino) non avrebbe calcato i palcoscenici più famosi, non sarebbe diventato amico e confidente di stelle come Anna Magnani, Maria Callas o Richard Burton, non avrebbe potuto debuttare dietro la cinepresa già nel ‘57 (con ‘Camping’) dopo un tirocinio che lo aveva affiancato a Francesco Rosi sul set di ‘Sensò (1954).
Eppure quella cavalcata folgorante e fortunata fu anche il segno critico che per molti anni non avrebbe abbandonato l’immagine di Zeffirelli, fino a diventare un vanto e una maledizione: lo hanno descritto come un calligrafo, un esteta, uno scenografo vestito da regista. E invece onestà vuole che si ricordi il suo vibrante documentario sull’alluvione di Firenze (1966) con la voce narrante proprio di Burton e poi una coppia di successi planetari come «La bisbetica domatq» (che nel ‘67 riunì Richard Burton e Liz Taylor) e «Romeo e Giulietta» (1968). Il nume tutelare era la penna di William Shakespeare, sua la lingua che aprì al regista italiano le porte della fama internazionale, tutti italiani il gusto e la cultura che rivitalizzavano le due grandi tragedie elisabettiane.

Quattro anni dopo l’operazione si ripeteva nel nome di San Francesco con «Fratello sole, sorella luna» (1972). Ormai Zeffirelli era una star, eppure un pregiudizio negativo lo avrebbe accompagnato sempre per il suo gusto anticonformista di smarcarsi costantemente dalle correnti del pensiero dominante.

Polemico, feroce nei giudizi, scoperto nelle fragilità personali, orgogliosamente fazioso, dalla politica allo sport, Zeffirelli si ritenne a lungo uno straniero in Italia. L’altra sua anima era quella cattolica, che trovava radici nel magistero di Giorgio La Pira, carismatica figura della fede in politica e che fu suo istitutore al convento di San Marco. Non era certo uno sperimentatore Zeffirelli, eppure proprio nel ‘74 si cimentò con la tv filmando la cerimonia dell’Anno Santo e poi, due anni dopo, dirigendo per la Rai, il kolossal ‘Gesu« con Robert Powell nei panni del Cristo.
Ma appena possibile si rifugiava in teatro, dimostrandosi insuperabile custode dell’allestimento classico per l’opera lirica. La sua ‘Aidà verdiana fece storia, ripetutamente fu chiamato ad aprire la stagione della Scala di Milano.

Era come se questo secondo amore assorbisse tutte le sue energie da quel punto in poi. Non abbandonò mai il cinema, ma sono rari i titoli capaci di fare storia nella sua maturità, da «‘Il giovane Toscanini» (contestato a Venezia nel 1988) a un modernissimo «Amleto» (1990) con Mel Gibson.

Proprio dagli anni ‘90 la sua firma si fece però più rada, nonostante un elegante «Jane Eyre» (1996) o l’autobiografico «Un tè con Mussolini» (1999).

Nel ‘94 entrava in Parlamento, eletto senatore a Catania per Forza Italia. Tuttavia anche nella cultura liberale il suo anticonformismo disturbò più d’uno e le sue proposte per la cultura e l’ambiente non ebbero seguito.

I riconoscimenti che scandiscono la sua carriera sono relativamente pochi rispetto al grande successo conquistato sulla scena e sullo schermo: c’è da riflettere sul fatto che nessun grande festival, e neppure l’Oscar (nonostante ben 14 nomination per i suoi film) abbia voluto riconoscere il suo indubbio talento.
Da qualche anno si era rinchiuso in un distaccato silenzio, circondato dall’affetto di pochi amici e dei figli adottivi nella bella casa romana e nella villa sulla costiera amalfitana.

È riuscito a vedere però l’ultimo suo capolavoro, tenacemente voluto: quella Fondazione per le Arti e lo Spettacolo che porta il suo nome ed ha trovato casa nell’ex Tribunale di piazza Firenze, dietro Palazzo Vecchio, per ospitare i tesori della sua vita artistica.

Ha sempre sognato uno spettacolo al servizio di grandi interpreti, di grandi spazi, di lussuose confezioni. Ha immaginato una cultura italiana ancora rinascimentale, intrisa di gusto antico e di eleganti riferimenti al passato.

Ha voluto un’Italia dell’arte e del bello capace di conquistare ancora il mondo, e più di una volta le ha dato vita coi suoi lavori, pagando però il prezzo dell’isolamento e di un «passatismo» scambiato spesso per arroganza aristocratica.

La sua visione del mondo e di se stesso è affidata alla bella autobiografia del 2008.
Giovane bellissimo, poi dandy raffinato ed elegante, infine gentiluomo solitario, Zeffirelli resta l’isolato cantore di una civiltà ormai scomparsa.


«Come sto? Tutto sommato non mi posso lamentare data la mia età. Quindi mi sento bene, è il fisico che ha iniziato a fare capricci». Così Franco Zeffirelli, il maestro che è stato attore, scenografo, sceneggiatore, costumista, anche pittore ma soprattutto regista, di film, prosa e lirica, scomparso oggi all’età di 96 anni, si raccontava in un’intervista rilasciata all’Ansa un anno fa, alla vigilia del suo 95/o compleanno.

«Un bravo ragazzo con la fortuna di avere molti talenti» e «solo idee geniali», così si era descritto qualche anno fa, il bambino dall’infanzia «complicata» a Firenze, sua città natale, il più internazionale dei registi italiani, ironico, polemico, passionale. Anche il grande tifoso della Fiorentina - «la porto sempre nel cuore anche se la seguo meno» - che, disse una volta, all’Oscar avrebbe preferito uno scudetto. «Mi reputo fortunato - raccontava l’anno scorso -. Ho avuto molti momenti importanti nella mia carriera. Ho conosciuto e collaborato con i grandi nel mondo della musica classica, dell’opera, del teatro, del cinema. Regalandoci e regalando al nostro pubblico momenti memorabili».

L’elenco è lungo: da Luchino Visconti, il suo di maestro - «mi ha insegnato e forgiato al mestiere» - a Maria Callas - «la diva per eccellenza, l’artista più straordinaria e più completa» -, «da Domingo a Pavarotti, dalla Taylor e Burton a Lawrence Olivier, Mel Gibson, Glen Close, Judy Dench, Maggie Smith e così via». E poi «i grandi direttori d’orchestra: Serafin, Von Karajan, Bernstein, Kleiber». Zeffirelli ricordava anche Coco Chanel: poco dopo averla conosciuta a Parigi «mi regalò una cartella con 12 disegni di Matisse. Ero all’inizio della mia carriera e quei disegni mi sono serviti, vendendoli uno alla volta, per affrontare momenti di crisi economica, dandomi così la possibilità di sopravvivere e di non rinunciare al mio lavoro». Fatto anche di difficoltà, ma «per me e per l’amore che dedicavo al mio lavoro tutto diventava passione e divertimento».

Meno lusinghiero il giudizio sul mondo dello spettacolo oggi: «Vive un periodo di decadenza, sono venuti a mancare i grandi interpreti, i grandi registi, i grandi scrittori del cinema e del teatro che tutto il mondo ci invidiava». E anche in generale sull’Italia (tanto amata ma «dove per questioni ideologiche ho sempre dovuto lottare»): «Mi sgomenta sotto ogni punto di vista ma bisogna sempre sperare che le cose migliorino».

La sua carriera lunga 70 anni ora è raccolta a Firenze, al Centro internazionale per le arti dello spettacolo Franco Zeffirelli, che accoglie disegni, bozzetti, copioni, sceneggiature, libretti d’opera, foto, filmati. Un archivio per il quale «ho lottato tanto - diceva - perchè» non si disperdesse: «Ora mi sento più tranquillo e mi auguro che il pubblico lo apprezzi». E un progetto rimasto nel cassetto? «Rimpiango di non essere riuscito a realizzare il mio film ‘I Fiorentinì. Un grande progetto che comincia con la morte di Lorenzo il Magnifico e il rientro a Firenze di Michelangelo e Leonardo. Una grande pennellata sulla creazione del Davide e della Monna Lisa e di un ipotetico rapporto di invidia ma allo stesso tempo di rispetto tra questi due ‘mostri sacrì».

Come, tra 100 anni, vorrebbe essere ricordato? «Lascio dietro di me un grande patrimonio artistico: decine di film e tante riprese dei miei spettacoli d’opera da tutti i più grandi teatri del mondo». Proprio per festeggiare i suoi 95 anni, il Teatro alla Scala aveva deciso di riproporre il leggendario allestimento dell’Aida di Zeffirelli del 1963, con le scene dipinte da Lila De Nobili, mentre l’Arena di Verona la sua Aida con i costumi di Anna Anni.

 

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