Il lavoro manuale in tempi di smart working

La lettera al giornale

Il lavoro manuale in tempi di smart working

Sembra strano al giorno d’oggi parlare ancora in termini positivi del lavoro manuale. L’avvento della new economy, la diffusione della rete in ogni parte del globo e l’utilizzo dei social network hanno creato nuove professioni “immateriali” che non richiedono particolari capacità manuali per essere esercitate. In aggiunta, i processi di automazione che hanno riguardato trasversalmente vari settori produttivi, hanno in gran parte liberato l’operaio dal contatto diretto con i materiali di lavorazione. Questi cambiamenti, comuni alle economie post-industriali, possono essere generalmente interpretati in termini positivi, come emancipazione dalla fatica del lavoro fisico e dai rischi per la vita e per la salute ad esso correlati. Solo due generazioni fa, il lavoro nei campi, nei cantieri, nelle fabbriche era ritenuto alla portata di tutti. Far studiare i propri figli, nella mentalità dei nostri nonni, per chi se lo poteva permettere, equivaleva a garantire loro un futuro professionale al caldo di un ufficio, prima ancora di una retribuzione adeguata. Ma se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, l’immaterialità delle nuove professioni genera nuove forme di disagio e sofferenza. Oggi, ad esempio, si può provare facilmente un senso di alienazione nel commerciare servizi online a clienti con i quali non si interagisce personalmente. E anche se per molti il cosiddetto smart working - improvvisamente divenuto popolare durante il recente lockdown - rappresenta un modo efficace per garantire un efficiente “work life balance”, alla lunga esso priva il lavoratore delle interazioni sociali che avvengono sul posto di lavoro e che contribuiscono, nel bene e nel male, a plasmare la nostra collettività. Nel recente “La lezione del legno – il lavoro manuale e l’etica del fare” il francese Arthur Lochmann ci rende partecipi di un percorso di vita alternativo. L’autore parte infatti dallo studio universitario della filosofia e del diritto per iscriversi poi ad una scuola professionale, diventare carpentiere e arrivare quindi al lavoro vero e proprio nei cantieri. Senza negare mai le proprie difficoltà, Lochmann si fa testimone del lavoro artigiano edile e di una quotidianità faticosa ma appagante, legata alla grande soddisfazione della lavorazione dei materiali e al senso di condivisione dei successi e dei momenti di difficoltà all’interno della squadra di lavoro. Durante la formazione da apprendista carpentiere, l’autore comincia col tempo a vedere gli edifici come “somma di una moltitudine di gesti e aggregazione di mille piccole espressioni personali”. E a riconoscere quindi il contributo espressivo degli operai nella realizzazione delle opere. In quest’ottica, non ha senso oggi contrapporre il lavoro materiale a quello intellettuale, come se il lavoro delle mani non coinvolgesse il cervello. Ed è anzi arrivato il momento di ridare dignità piena al lavoro manuale, spesso e ingiustamente considerato fuori dalla “modernità”. L’operaio edile e il carpentiere, tra le altre, rappresentano professionalità ancora richieste, che andrebbero rivalutate dalle giovani generazioni come antidoto al rischio “alienazione” delle professioni “immateriali”. Usando le parole del filosofo Alexandre Kojeve, richiamate da Lochmann: “L’uomo che lavora riconosce nel mondo effettivamente trasformato dal suo lavoro la propria opera: vi riconosce sé stesso, vi vede la propria realtà umana, in esso scopre e rivela agli altri la realtà oggettiva della sua umanità”.

Matteo Salvetti, segretario generale della Feneal Uil del Trentino


 

Alcuni lavori plasmano il mondo

È proprio così. Alcuni lavori plasmano il mondo. E il rapporto fra le persone, al di là degli aspetti materiali e immateriali non solo del lavoro, resta un pezzo (dell’anima, aggiungerei) di ogni mestiere. Qualcosa che si sente. Che si tocca. Che si vede (benché anche una pratica fatta bene, anche se da remoto, in un certo senso si può toccare e vedere). Il Covid-19 ha costretto molti di noi a casa (alcuni con la possibilità di lavorare per così dire a domicilio, altri con l’impossibilità di lavorare) e ha sfidato una società che solo in alcuni casi ha saputo davvero reinventarsi o trovare risposte adeguate ad un’emergenza che è stata (ed è) sanitaria, ma che è e sarà sociale ed economica (e temo che molti abbiano sottovalutato questi due aspetti). Siamo infatti di fronte a una società che ha faticato a capire sino in fondo cosa sia la modernità, concetto che non va certo confuso con quello della virtualità. Oserei dire che siamo solo a metà della lezione, ma forse abbiamo già tutti capito quante facce abbia il lavoro (bello il concetto dell‘etica del fare, anche se io parlerei di percorsi di vita sempre potenzialmente complementari) e quanto drammatico possa essere perdere il lavoro per un’emergenza sanitaria.

lettere@ladige.it

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