Vigile in mutande, assoluzione che indigna

La lettera al direttore

Vigile in mutande, assoluzione che indigna

Caro direttore,
sono incredulo come penso la maggior parte dei cittadini, del fatto che il vigile che timbrava il cartellino in mutande sia stato assolto. Che fiducia si può avere in una giustizia che assolve delle persone che disprezzano palesemente il loro lavoro praticando comportamenti ridicoli ed offensivi nei confronti di chi con le tasse paga il loro stipendio, quale fiducia può avere il datore di lavoro in queste persone che pensano di avere solo diritti senza sapere che esistono anche dei doveri. Nel privato questi personaggi vengono licenziati su due piedi senza se e senza ma.
Debbo solo fare i complimenti a chi, che con una maestria incredibile, è riuscito scovare dei codicilli che hanno permesso l’assoluzione del vigile in mutande per non aver commesso il fatto.

GianPaolo Furlan


 

Certe immagini non si possono accettare

L’indignazione - che condivido, sia chiaro - non fa giurisprudenza. Le sentenze, si diceva un tempo, si accettano e non si commentano. La questione, in punta di diritto, è delicatissima. Da una parte c’è una foto che ritrae un dipendente in mutande che timbra un cartellino. Dall’altra c’è un dipendente (lo stesso) che ritiene illegittimo il licenziamento e che per questo fa ricorso. Dall’altra ancora c’è un tribunale che, regole e cavilli alla mano, deve ogni giorno fare giustizia.

Le motivazioni della sentenza non sono ancora note, ma si apprende che, ad avviso del giudice, il fatto (timbrare in mutande) non sussista, in quanto l’agente (che abitava in quel palazzo e che evidentemente a “casa” si muove comunque abitualmente in mutande, deduco io) apriva il mercato e poi andava a mettersi la divisa. Ed è lecito - lo dice la legge - vestirsi in orario di lavoro. Io ricordo invece la frase del presidente del consiglio di allora, Matteo Renzi: «Va licenziato entro 48 ore; è una questione di dignità». Forse quella fu l’unica frase sulla quale Renzi, che al tempo nei consensi peraltro volava, raccolse l’unanime consenso del Paese. La giurisprudenza - come è emerso anche in altri procedimenti che non vedevano sul banco degli imputati dei soggetti in mutande - riconosce il “tempo tuta”: il tempo in cui prima si timbra e poi si indossa la divisa. Tuta peraltro curiosa, quella del vigile in questione. Ma, ripeto, l’indignazione - ed è giusto così, perché le emozioni non aiutano quasi mai quando si tratta di prendere una decisione - non fa giurisprudenza. E non fa giurisprudenza nemmeno la forma (o il genere di “tuta”, se preferisce), se la norma è rispettata.

Ci consoliamo con i 16 dipendenti che hanno patteggiato e con gli altri 16 che andranno a processo. Fra loro, se non ricordo male, c’era anche quello che in orario di lavoro faceva canottaggio. Una cosa è vera più di altre, comunque: i processi non si fanno in tivù e non si fanno con le foto (qualcuno alla fine dirà come sempre che è tutta colpa dei giornalisti), ma va pur detto che certe foto e certe immagini non si possono vedere. Né accettare. Anche se - per legge - possiamo timbrare in mutande. Non tutti, sia chiaro.

a.faustini@ladige.it

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