Se le tragedie diventano spettacolo in tv

Se le tragedie diventano spettacolo in tv

Smettiamola con questi processi mediatici. Basta spettacolizzare una tragedia attraverso lunghe dirette televisive per assecondare logiche di marketing, nella gara quotidiana all'incremento dell'audience, dello share di alto gradimento. Negli anni Duemila, dal delitto di Cogne a quello di Avetrana, dall'omicidio del piccolo Tommy a quello della giovanissima Yara, solo per citare i più gettonati da una stampa, talvolta esasperatamente "curiosa". Anche nei giorni scorsi il caso di Roberta Ragusa e della parallela sentenza della corte di Cassazione ha scatenato un'attenzione mediatica e un interesse "sociale" eccessivi.

La condanna definitiva del marito è stata seguita in tempo reale da milioni di telespettatori, con una platea di "esperti" presenti nello studio, divisa tra innocentisti e colpevolisti. Una commistione tra informazione, che spetta legittimamente al dovere di cronaca, e volontà di insano intrattenimento, enfatizzata anche non di rado dall'atteggiamento di alcuni giornalisti-conduttori, che finiscono loro stessi, forse, per essere travolti da un ingranaggio superiore, per subire la forza di attrazione di quanto stanno raccontando. Ecco allora, come è capitato l'altra sera, l'invito a tenere fisse le telecamere accese sul residence dal quale, subito dopo la lettura della sentenza, sarebbe dovuto uscire il condannato in via definitiva, accompagnato dai carabinieri presso il carcere di Livorno; l'enfatizzazione sonora e audio delle urla disperate provenienti dall'abitazione, forse della nuova compagna o dei figli; la presenza dell'inviata, con l'inquadratura fissa, presso la casa dei genitori del condannato, che assistono il tutto "distrutti" e senza parole, come fa notare, direi io con ovvietà, la giornalista esterna.

E poi l'inseguimento insistente di alcuni parenti in fuga, che non vogliono apparire di fronte alle telecamere, con l'incalzante pressione del reporter che cerca, freneticamente, di carpire e offrire qualche nuovo scoop. Il tutto, però, non è una fiction o un telefilm poliziesco, ma è realtà.
Speculare sulla sofferenza immane di chi c'è ancora, su una tragedia privata, divenuta pubblica e tristemente famosa grazie proprio ai mezzi di informazione, non è forse una forma di giornalismo biasimevole e lesivo della dignità umana? Non è un valicare i limiti consentiti dalle convenienze morali e sociali e una mancanza di rispetto?

Claudio Riccadonna - Ala


 

Confondiamo la realtà con la fiction

Condivido. A maggior ragione se parliamo della tv pubblica, che dovrebbe distinguersi proprio in casi come questi.

A forza di guardare tutto dal buco della serratura e a forza di invitare gli italiani a fare lo stesso attaccati allo schermo a tutte le ore, non solo finiamo per non saper più alzare lo sguardo, per non riuscire più a vedere quello che sta oltre la scena sulla quella ci viene chiesto (imposto?) di indugiare, ma finiamo per confondere la realtà con la fiction, il dolore reale con quello di un film. A volte è necessaria la giustizia mediatica, perché certe condanne sono troppo miti e certi tempi (della giustizia, non certo della tv) troppo lunghi, ma una cosa è la giustizia e ben altra cosa è la vetrina, questa lente d'ingrandimento adagiata sempre su certi tristissimi fatti di cronaca.

a.faustini@ladige.it

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