«Quella volta che presi M49 (tradito da un secchio di latte)» le memorie del veterinario de Guelmi

Alessandro de Guelmi racconta quando catturò (la prima volta) l'orso M49.

Solo mezzo metro di spazio e una grata di ferro ci separavano; lui mi fiutava per capire chi avesse di fronte, io lo osservavo clinicamente per valutare il suo peso e il suo stato di salute. Certamente era cresciuto bene nei boschi della destra Rendena, il cibo non mancava: vegetali freschi, larve di insetti, frutti di bosco, carcasse di selvatici morti, ma anche favi, miele e covate di api domestiche. Era giovane, ma all’età di due anni e mezzo era già il dominante e si vantava della sua forza con F36 e F37, le due giovani femmine con le quali condivideva la zona di malga Rosa.
Era cresciuto molto in fretta, 129 Kg era il peso che risultò al dinamometro, non aveva rivali e non temeva l’uomo: questo forse fu il suo errore. Non aveva necessità di predare animali domestici in quanto le montagne davano abbondante alimento; tuttavia aveva bisogno di capire la propria forza rincorrendo ed abbattendo pecore, asini o bovini. Sì, il sangue lo inebriava, ma non aveva necessità di cibarsi delle carcasse degli animali abbattuti. In val Danerba predò una manza vegliandola tutta la notte senza toccarla. Di due vacche uccise in val Daone aveva assaggiato solamente i capezzoli, probabilmente attratto dal sapore del latte che aveva succhiato dalla madre sino a due anni prima.
Con l’uomo aveva un rapporto ancora lontano: lui girava di notte, gli uomini di giorno. Accadde che, dopo alcune predazioni, persone vestite tutte uguali gli sparassero con dei pallini di gomma e lo facessero inseguire dai cani, ma anche questo non gli procurò molto fastidio. Il ritrovamento costante di un secchio di latte a disposizione all’esterno del caseificio aumentò la sua confidenza nei confronti dell’uomo. Una notte, non trovando più il secchio del latte e percependo un intenso profumo dello stesso che usciva dalla malga, abbatté la finestra, entrò nella sala del latte e fece razzia. Scoprì così che all’interno di quelle strane scatole in cui vive l’uomo ci sono tante cose commestibili. Questo suo nuovo atteggiamento ha segnato la fine della sua vita selvatica. Da allora, facendo tesoro di questa esperienza e spinto dal bisogno di nutrirsi, tentò di entrare in circa trenta abitazioni: alcune volte con successo trovò cibo compatibile con la sua onnivoracità, altre volte la solidità delle costruzioni ne impedì l’intrusione. Nel frattempo gli uomini decisero, consultando un loro protocollo di gestione, che quell’orso non era più compatibile con le loro abitudini di vita; era diventato insomma un animale problematico. Ma come? Prima viene invogliato a nutrirsi artificialmente e spinto ad entrare nelle case e poi, una volta appresi questi insegnamenti, viene considerato dannoso?
Decisa la cattura, nella trappola a tubo, fu piazzato ovviamente un secchio di latte. Nella vita di M49 il latte è un continuo filo conduttore.

E qui comincia il mio lavoro. Lo addormento, sento il suo respiro, dolce profondo e regolare; ogni tanto russa. Il cuore batte con forza e regolarità. Lo accarezzo: è proprio un bellissimo esemplare nel pieno della sua forza di gioventù. Il pelo lucido, i denti ben sviluppati, le zampe nere, grosse e possenti, le unghie forti e perlacee. Attorno a lui si muovono persone: ognuno in silenzio svolge il proprio compito. Si effettuano valutazioni sanitarie e morfologiche, prelievi di materiale organico, si inseriscono micro chip, marche auricolari ed infine il radiocollare. Mi rendo conto che questa è la fine della sua selvaticità. Infine si risveglia e se ne va. E come troviamo scritto dal professor Graziano Daldoss nel suo libro Sulle orme dell’Orso, “con una fascia di plastica attorno al collo, non era più l’Orso di prima”.

Alcuni mesi dopo, poco prima del letargo, durante un’escursione in val Manez, M49 attraverso il suo infallibile olfatto riconobbe la mia presenza a due chilometri di distanza. Nelle due notti seguenti seguì la mia traccia. Mi sono sempre chiesto quale fosse il motivo che lo avesse spinto a cercarmi e cosa sarebbe successo se ci fossimo reincontrati. Questa domanda non avrà risposta. Sono trascorsi quasi due anni e nel frattempo non ha perso le sue abitudini, ha continuato a introdursi in abitazioni alla ricerca di cibo ed è stato catturato altre due volte. È riuscito anche a fuggire dal recinto costruito a prova di orso, dimostrando che la sua selvaticità e la sua voglia di libertà sono più forti del dolore causato dalla scarica elettrica.

Gli studiosi svedesi sostengono che il prelievo legale di questi esemplari problematici è uno degli strumenti più importanti per la tutela e la salvaguardia della popolazione stessa degli orsi. Lo stesso PACOBACE, (Piano d’azione per la gestione dell’orso bruno) redatto dai migliori tecnici europei, condiviso e sotto firmato dalle regioni dell’arco alpino centro orientale, prevede la rimozione dall’ambiente di questi soggetti definiti problematici. Probabilmente, se non fosse stato attratto dall’uomo col secchio di latte, M49 sarebbe ancora un orso sconosciuto e libero di girovagare liberamente per i monti del Trentino assieme ai suoi consimili. Sono proprio questi comportamenti umani non corretti e quindi condannabili che vanno a incidere profondamente sulla vita di altri esseri viventi.

Catturato, costretto in una gabbia di preadattamento, imbottito di psicofarmaci per scongiurare la pazzia, narcotizzato, castrato e poi immesso in un recinto più grande per il resto della sua vita. Questo il suo futuro. Probabilmente soltanto in Italia animali come M49, che sono l’emblema della biodiversità, della libertà e della vita selvaggia, vengono ancora imprigionati in recinti che, per quanto grandi siano, rappresentano per loro sempre una prigione. In tutti gli altri stati al mondo a questi animali, “non più compatibili con l’uomo”, viene concessa una morte dignitosa nell’ambiente selvatico in cui hanno vissuto.
A questo punto vorrei distogliere l’attenzione da M49 e indirizzarla a tutta la popolazione degli orsi trentini, invitando indistintamente persone e associazioni che hanno a cuore la sopravvivenza degli orsi sulle nostre montagne a riflettere sul maggior problema riguardante il futuro dell’orso sulle Alpi: la consanguineità. La popolazione degli orsi del Trentino, attualmente stimata in circa 90 esemplari adulti, tutti discendenti da due padri e quattro madri, risulta in questo momento isolata, impossibilitata a scambi genetici naturali con individui di altre popolazioni e perciò costretta all’accoppiamento tra individui consanguinei con il conseguente impoverimento genetico. Il valore di eterozigosi sta decrescendo di anno in anno sempre più velocemente e, più si tarda ad intervenire, minori saranno le possibilità di successo e maggiore sarà invece la possibilità di andare verso il collasso della popolazione stessa.


(Alessandro de Guelmi, veterinario, è un esperto faunistico)

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