Paolo Cognetti e il Covid: «L'estate in montagna? Non sarà più la stessa cosa»

di Renzo Moser

«Mi aspetto un’estate d’altri tempi, ci sembrerà di essere tornati indietro di qualche anno. Con meno stranieri, e tante famiglie, tanti bambini. E un maggiore utilizzo delle case. Sarà una montagna diversa, una montagna che verrà abitata, più che visitata. Questo, pur in una situazione di grandissima difficoltà, può essere una cosa bella. Questa, almeno, è la mia speranza».

Paolo Cognetti, scrittore, cittadino e montanaro (più montanaro che cittadino, ormai), Premio Strega 2017 con il romanzo “Le otto montagne”, sta vivendo l’isolamento da coronavirus nel cuore dell’emergenza pandemia, a Milano, dove vivono i suoi genitori. Non si è rifugiato in montagna, a Brusson, in Valle d’Aosta, dove pure trascorre buona parte dell’anno. Ma la montagna, anche nella sua casa di Milano, è sempre lì, sempre presente. Non è un caso se è stato fra i primi firmatari di una petizione per chiedere, in Valle d’Aosta, il ritorno all’aria aperta, adeguando le norme a un contesto che non può essere paragonato a quello dei centri urbani.

Paolo Cognetti, perché ha firmato quella petizione?

In Valle d’Aosta sento dei racconti terribili: non si può più fare niente, non si può fare l’orto, non si può fare legna, non si può raccogliere nulla. C’è una sorta di svolta autoritaria molto pesante: è assurdo che uno non possa andare a fare il suo orto, o a camminare in un bosco. A Milano, paradossalmente, questo peso non lo sento. Esco con il cane, un paio di volte al giorno, vicino a casa, ma la vita in città non mi sembra poi molto diversa. In città si lavora al chiuso, che sia a casa o in ufficio, il rapporto con il fuori è molto diverso. A Milano uscire di casa vuol dire, anche in tempi normali, prendere l’ora d’aria. In montagna è tutto diverso.

Le misure restrittive siano calibrate per forza di cose sulle grandi città o comunque sui centri ad alta densità. Ma ha un senso il lockdown in montagna? Chiudere i sentieri?

No, non ha nessun senso. Io abito in una delle valli più popolose della Valle d’Aosta, che sarebbe tranquillamente controllabile. Queste valli, spesso, hanno un’unica strada di accesso, sono facilmente presidiabili; la popolazione potrebbe essere tenuta sotto controllo in modo molto meno autoritario. In queste comunità di montagna si può contare su un forte senso di responsabilità condiviso. Sarebbe anche una prova di fiducia verso i cittadini, verso noi stessi. Sono proprio questi i momenti in cui fare leva su quel senso di responsabilità, e fare affidamento su di esso. In questo la montagna è molto diversa dalla città.

Che montagna ritroveremo alla riapertura?

Il grande problema sarà quello delle strutture ricettive. La nostra montagna vive di turismo, spesso con piccole strutture a conduzione famigliare. Saranno queste ultime a patire le maggiori difficoltà. Anche le norme e le regole di cui sentiamo parlare per una prossima riapertura sembrano misurate più sulle grandi realtà, sui grandi alberghi, e rischiano di essere devastanti sulle piccole strutture di montagna. Bisognerà riorganizzare una stagione turistica perché non sia un disastro completo.

Come?

Beh, la montagna si può impegnare, può ideare qualcosa di nuovo. Per esempio usare le tende all’esterno delle strutture. Il vicepresidente del Cai, Antonio Montani, ha detto che per tornare in montagna dovremo riabituarci alle tende e ai sacchi a pelo. Ecco, perché non raccogliere questa suggestione? Abbiamo tanto spazio aperto, proviamo ad usarlo. Le nostro norme sui campeggi sono molto restrittive: perché non aprire a questa possibilità?

Si discute molto anche sulla riapertura dei rifugi. Se chiudono, sarebbe la prima volta dai tempi della guerra.

Non so che cosa succederà a quelli di alta quota, ma quelli a mezza quota, che lavorano tanto con la cucina, devono riaprire e vanno aiutati a farlo.

In Trentino c’è chi ha prefigurato lo scenario di un turismo più elitario, con numeri più contenuti ma qualità dei servizi più alta. E prezzi più alti, di conseguenza. Sarà, quello della montagna, un turismo per soli ricchi?

È uno scenario inedito. Da noi, anche per la vicinanza con le grandi città come Milano e Torino, c’è sempre stato un turismo più popolare. Certo entrambe le vie sono percorribili, ma sarebbe bello conservare un modo più frugale di vivere la montagna. Per questo mi aspetto un’estate un po’ più da vecchi tempi, in cui ci sembrerà di essere tornati indietro di qualche anno. Mi aspetto di vedere meno stranieri e più famiglie, più bambini. Con un maggiore utilizzo delle case, rispetto alle altre strutture. In una situazione di grande sofferenza per il settore turistico, la montagna sarà forse abitata un po’ di più, più che visitata dai turisti. Sarebbe molto belle vedere un maggior numero di persone che “abitano” questi luoghi.

Un ritorno a quella che chiamavamo la villeggiatura?

C’è un paesaggio, fatto di seconde case che restano chiuse e vuote gran parte dell’anno, vengono vissute giusto quelle due settimane in agosto. Invece adesso mi piacerebbe, e ci spero davvero, che grazie ad esempio allo smart working queste case diventassero un po’ più vere, un po’ più “case”, tornando a una frequentazione più lunga della montagna.

Un po’ come succede nel suo romanzo, «Le otto montagne».

Periodi così lunghi, intere estati, sarà difficile. Ma ci siamo fatti due mesi chiusi in casa, tanti hanno lavorato e lavorano da casa. Portando i servizi in montagna, potrebbe essere una buona idea. Ci sono moltissimi paesi pieni di case vuote: è una suggestione non so quanto realistica, ma sicuramente interessante.
La frequentazione della montagna pone anche un’altra questione, quella della sicurezza. Lo scoppio della pandemia ci fa riflettere anche sulle priorità dell’assistenza sanitaria e del soccorso. Dobbiamo aspettarci che cambi qualcosa, su questo fronte?
Quello che ormai viene considerato un diritto vero e proprio, il diritto di essere recuperati e soccorsi ovunque e in qualsiasi momento, in realtà è una cosa relativamente recente. Non è sempre stato così, prima c’era l’abitudine a cavarsela, a fare conto sulle proprie forze e sulle proprie risorse. Questa potrebbe essere l’occasione per recuperare un maggiore senso di responsabilità nell’andare in montagna. L’assistenza immediata non deve essere così scontata: è un lusso, ma sta anche diventando un grosso problema.

A proposito del restare in casa, come è andata, e come sta andando, la sua “reclusione”?

Personalmente ho sperimentato un bel po’ di cose positive. Devo dire che le belle scoperte sono più delle rinunce. È stata ed è l’occasione per ragionare su cosa sia davvero importante per te. Non sto parlando di grandi temi, intendiamoci: sto parlando di come passi le tue giornate, di come arrivi a sera. Uscire mille volte al giorno, sempre pieni di impegni, sempre di corsa a riempire un vuoto che ci spaventa... forse abbiamo capito che così non va bene. Ho ragionato molto su questa frenesia. Ho pensato che è ora di stare attenti, di avere cura di se stessi, di non ammalarsi, di vivere con uno stile più sobrio e sano. Devi farlo, ho pensato, adesso che puoi permettertelo.

All’inizio della pandemia, lei aveva detto di essere rimasto colpito dalla fragilità di persone che non sembrano in grado di affrontare la necessità di fermarsi, e rimanere, in un luogo, anche se quel luogo è la propria casa.

È vero, ma quella sulla fragilità è una riflessione di qualche tempo fa. All’inizio tutti erano più paurosi di adesso. Dopo due mesi, mi pare che tutti abbiano rivisto la propria scala di valori. È come se adesso non si avvertisse più quell’urgenza di superare l’impedimento che ci siamo trovati davanti. Questo, almeno, è quello che percepisco nella mia cerchia di amici e conoscenti.

Avverte una differenza, tra città e campagna, nell’affrontare le restrizioni imposte dalla pandemia?

Ho un amico montanaro che gestisce un B&B, e che ogni tanto mi dice: andrà a finire che lascio il B&B alle banche e torno a coltivare patate. Ecco, il montanaro sente che, in un modo o nell’altro, se la caverà. Sente di avere le risorse per farlo. Forse in città questa cosa manca. O forse, chissà, esiste un equivalente urbano.

Lei da anni si divide tra città e montagna. Come è cambiato il suo rapporto con quest’ultima?

Il mio modo di stare in montagna è cambiato, sta cambiando. Sta assumendo un significato più profondo. Brusson non è più solo un “buen retiro”. Lo è stato per anni, ma adesso non è più così. Adesso è il luogo dove vedo il mio futuro, anche professionale: sto aprendo un posto, un ostello della gioventù, che sarà anche un luogo di produzione culturale, sulla scia del Festival (”Il richiamo della foresta”, ndr). Direi che ho scelto il momento giusto...

comments powered by Disqus