Anziani morti nelle Rsa, la rabbia dei familiari «Perché non li hanno portati in ospedale?»

di Patrizia Todesco

La morte di un genitore provoca sempre un immenso dolore. Ma se questa sopraggiunge senza poterlo accudire e aiutare e con il dubbio che per lui non sia stato fatto abbastanza, al dolore si aggiungono i rimorsi, la rabbia e soprattutto la voglia di fare chiarezza.
È quanto sta accadendo a molti familiari degli anziani deceduti nelle Rsa. Persone fragili, molte con varie patologie, che Covid si è portato via, qualcuno dopo lunghe sofferenze, altri nel giro di pochi giorni. Storie diveRse ma con domande analoghe: «Perché quando si sono aggravati non li hanno portati in ospedale?». «Perché non hanno usato tutte le misure di prevenzione per fare in modo che Covid non entrasse nelle case di riposo dove è noto che vivono le persone più fragili e a rischio? Perché in Provincia hanno pensato di chiudere prima le scuole delle Apsp?».

Adriano Tessari, 87 anni, ex appuntato della Guardia Finanza, originario di Roana ma residente a Riva dal 1965, avrebbe a breve festeggiato i 60 anni di matrimonio se il virus non se lo fosse portato via. Ora, invece, moglie e figli lo piangono al cimitero. «Mio papà aveva una malattia che gli aveva preso muscoli e nervi e che da anni gli impediva di muoversi. Però per il resto stava bene. Era alla Apsp di Riva da un anno».

È morto l’11 aprile dopo qualche settimana di febbre e tanta sofferenza. «Era stato lui stesso a dire a mia mamma al telefono che aveva la febbre, ma non sembrava grave. Io in quei giorni avevo chiamato per informarmi e mi avevano detto che era sfebbrato. Peccato che fosse sfebbrato in quel momento ma in realtà aveva febbre alta. Poi ha iniziato a non riuscire a mangiare e bere e così è stato per 10 giorni. Io mi sono fidata e affidata al medico della struttura. Adesso mi sento in colpa percHé penso che forse avrei dovuto impormi di più», spiega la figlia, Stefania Tessari.

«Venerdì 10, il giorno prima che morisse, mi ha chiamata il medico dicendomi che non c’era più niente fa fare. Perché non lo portate all’ospedale? Ho chiesto io. Perché non c’è posto, mi hanno detto». È stato a quel punto che Stefania ha cercato in ogni modo di aiutare suo papà. «Ho chiamato all’ospedale di Arco e lì mi hanno spiegato la procedura. Mi hanno detto che se fosse arrivato in ambulanza tramite il Pronto soccorso il medico di guardia avrebbe valutato e che comunque posto ce n’era. Il giorno dopo mi hanno chiamata dicendo che era morto».

Per la famiglia sono stati giorni di dolore. «Abbiamo pensato al funerale. Eravamo solo noi, i parenti più stretti. Uno dei miei figli, rientrato dall’estero, non ha potuto partecipare anche se era all’ultimo giorno di quarantena. Abbiamo chiesto una deroga spiegando che si trattava del funerale del nonno, ma non ci è stata concessa».
Ma quello che fa più rabbia a questi familiari, è pensare a come il virus è entrato nella struttura. «Noi familiari già da giorni non potevamo vedere i nostri cari, quando abbiamo saputo del primo caso positivo, della signora trasferita da Villa Regina. Lo stesso direttore ha detto che aveva i sintomi eppure non è stata isolata. Da quello che sappiamo noi parenti è stata messa in camera con un’altra persona e anche i dispositivi di protezione del personale non sono stati sufficienti per proteggere loro e gli altri ospiti».

Stessi dubbi, stessi pensieri li ha la figlia di un altro ospite  della casa di riposo di Riva. Lui è deceduto il 28 marzo, 20 giorni dopo l’ingresso dell’anziana trasferita dopo un periodo di riabilitazione dal «Regina» su direttiva dell’uvm (unità di valutazione multidisciplinare dell’Azienda sanitaria»). «Quello che mi chiedo è perché, se la signora aveva già i sintomi, sia stata ricoverata senza sufficienti precauzioni nella struttura e nello stesso piano di mio padre che aveva una grave patologia polmonare», racconta Lara Malfer, figlia di Renzo Malfer, morto a 74 anni.

«Fino a una settimana prima ci stiamo sentiti, stava abbastanza bene. Poi lunedì della settimana durante la quale poi è morto mi ha detto che respirava male. Ho richiamato più volte in struttura lo stesso giorno. Mi hanno detto che mi avrebbe richiamato il medico ma non lo ha fatto. Allora alle 17 ho chiamato io per l’ennesima volta e l’infermiere mi ha spiegato che stava male ma che non si poteva portare in ospedale. Poi durante la settimana ho parlato una volta con una educatrice che mi ha tranquillizzata dicendomi che era stabile. Giovedì invece si è aggravato e il medico mi ha comunicato che pensavano di dargli della morfina. Io a quel punto gli ho detto che era meglio se lo portavano in ospedale. Mi hanno risposto che se proprio volevo vedevano se era possibile. Quando è stato trasferito, però, era già in coma. Io non credo che se fosse stato portato in ospedale prima sarebbe sopravvissuto, ma credo si sarebbe sentito più sicuro».

Affida le parole a Facebook, infine, un’altra figlia. «Dove c’era mio papà hanno chiuso il 20 febbraio. Al 5 aprile credevo fosse fuori pericolo invece alla telefonata consueta del mattino mi hanno detto che avevano dovuto mettergli l’ossigeno. Alla sera era stabile. Ho chiesto perchè non lo portavano in ospedale e mi hanno risposto che avevano avuto direttive di non portare gli ospiti delle Rsa. Quattro giorni dopo se ne è andato. Con tanta tristezza, solo e senza veder nessuno in 50 giorni. Non doveva andare così, stava bene di salute».

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