Il racconto: «Così mia figlia ci ha salvate dalla violenza»

di Flavia Pedrini

«Io oggi sono una persona più consapevole delle mie potenzialità e di quello che sono. Oggi sono io».

Aurora, il nome è di fantasia - però racconta bene la luce che si legge negli occhi di questa donna - ripercorre con una lucidità sorprendente quella che sembra la trama di un film dell’orrore e che, invece, per tanti anni, è stata il canovaccio della sua vita. Una storia di violenza, fisica e psicologica e di annichilimento della persona. Ma questa è anche una storia di coraggio e di rinascita, grazie alla forza di una figlia: «Lei ci ha salvate».

Dall’autunno 2018 Aurora vive con sua figlia in Casa Rifugio, struttura che accoglie le vittime di violenza. La strada di questa mamma non è ancora finita e sul futuro pesa l’incertezza di un lavoro che ancora non c’è. Eppure, oggi Aurora non ha dubbi e alle donne vittime di violenza dice di non avere paura a chiedere aiuto e denuciare.

Partiamo dall’inizio. La relazione con suo marito è durata più di 15 anni. È stata subito segnata dalla violenza?

«Io ho sempre vissuto nella violenza, quello che ho subìto da mio marito lo avevo già subìto da mia madre. Non riconoscevo determinati campanelli d’allarme. Uscivo da un lunga relazione, anche quella segnata dalla violenza. Sono sempre stata molto insicura, convinta di non essere mai abbastanza, di avere qualcosa che non andava e lui si è presentato come il mio salvatore. Dopo nemmeno un anno siamo andati a vivere insieme e lì hanno iniziato ad esserci cose che non andavano, ma me ne sono resa conto solo dopo».

Cosa era successo?

«Mi ero trovata seduta a terra, in un angolo della cucina e avevo chiamato i carabinieri. Ero fuori provincia, arrivarono in forze. Ma la mia mente aveva concellato quello che era successo. Poi la situazione sembrava rientrata, anche perché sono rimasta incinta. Ma il bimbo è nato prematuro e poi purtroppo è morto. Solo poi ho scoperto che certe cose succedono anche per lo stress».

La relazione però è andata avanti.

«Abbiamo deciso di sposarci, un matrimonio organizzato in poco tempo. Forse c’erano dieci parenti miei, il resto tutti amici e familiari suoi».

Come se lei valesse meno.

«È così, ma solo adesso rivedo queste cose con occhi nuovi e le capisco. Allora non me ne rendevo conto. Quando ci siamo trasferiti di nuovo, lui ha fatto terra bruciata intorno a me. Era talmente bravo a farmi credere che anche i tradimenti erano frutto della mia fantasia e che la gente parlava per invidia. Era mio marito e io gli credevo. Per anni c’è stata una relazione con alti e bassi. Ma io sono cresciuta senza padre e volevo che mia figlia avesse la famiglia perfetta. Lui, però, ha iniziato a bere davvero tanto e lì sono iniziate le violenze fisiche».  

Violenze consumate anche davanti a sua figlia, nemmeno adolescente.

«Sì, sentiva le minacce di morte e quello che mi faceva, ma aveva iniziato anche con lei. Io senza di lei non ce l’avrei mai fatta, è stata lei a darmi la forza di andarmene. Se non fosse stato per lei, come mi dice, sarei finita in qualche boschetto».

Morta.

«Sì. Una sera ero sul divano, mi ha messo le mani intorno al collo e ha cercato di uccidermi, perché avevo detto che volevo andarmene. Dopo quell’episodio per un mese è stato tutto idilliaco, poi è riesplosa la violenza. Avrei dovuto andare al pronto soccorso, ma temevo per mia figlia».

È proprio su figlia, però, che le dà la forza di spezzare queste catene.

«È andata a prendere gli scatoloni e mi ha detto: “Ce ne andiamo”. Io sono scoppiata a piangere, ma lei mi ha chiesto: “Per quanto tempo vuoi farti trattare così?”. Lei ci ha salvate».

Fino a quel momento lei non aveva chiesto aiuto o denunciato.

«Avevo paura per quello che sarebbe potuto succedere a mia figlia. Dopo essere scappate siamo state per un mese da mia mamma. Però le davo fastidio. Lei non voleva sentire parlare della mia situazione, sminuiva quello che era successo. E poi ho scoperto aveva una relazione con mio marito e che cercavano di accordarsi per farmi rinchiudere in una casa di cura e portarmi via mia figlia».

Ancora uno schiaffo da chi avrebbe dovuto amarla.

«Sono crollata. Dopo due giorni siamo scappate».

Ha trovato un appartamento in cui vivere.

«Sì, ma eravamo segregate, avevo paura di uscire. Mi arriva una denuncia da parte di mio marito per sottrazione di incapace. Vengo convocata dai carabinieri e mi dicono che lui è pronto a ritirare la querela se gli dico dove abito. Spiego al maresciallo la situazione e lui capisce subito. I carabinieri mi hanno aiutata moltissimo e spinta ad entrare in Casa rifugio».

Anche perché nel frattempo ha ricevuto minacce.

«Sì, lui ha capito dove stavamo, trovavo lettere di minacce di morte, un’altra volta un sacco pieno di escrementi e lo vedevo passare la sera con la macchina».

Poi l’approdo in Casa rifugio.

«Mi aveva violentata e ero rimasta incinta, poi ho avuto un aborto spontaneo. Ero disperata e ho telefonato alla Casa rifugio, grazie ai contatti che mi hanno dato i carabinieri. Quando sono entrata, per la prima volta, ho dormito, perché mi sono sentita protetta».

La sua storia, terribile, racconta che dalla violenza si può uscire.

«Sì, non è un percorso facile e per me non è ancora finito, ma alle donne dico: “Denunciate”. Io e mi figlia abbiamo seguito un percorso con le operatrici e con lo psicologo. Lei sta bene, si è ripresa, è bravissima a scuola e ha imparato ad esprimere le emozioni, anche a piangere, perché prima in casa non si poteva. Lui diceva che lo facevano le persone deboli. Invece bisogna esternare le emozioni, quello è il coraggio».

Chi è oggi Aurora e come immagina il futuro fuori dalla Casa rifugio?

«Sto cercando un lavoro, ho fatto dei corsi e un tirocinio. Questa è la difficoltà più grande che ho, perché se avessi un lavoro potrei ripartire. Ora sono sicuramente una donna più consapevole delle mie potenzialità e di chi sono. Fino a due anni fa ero quella che gli altri volevano fossi. Oggi sono io».

Che significato ha per lei la festa dell’8 marzo?

«È importante fare sensibilizzazione, come per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ma c’è ancora tanto da fare. Quando subivo quelle cose, mi confidavo con le amiche, ma nessuna mi ha mai detto di denunciare. A chi è in queste situazioni, invece, dico di farlo e di chiedere aiuto».

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