Il miracolo della Penny Wirton volontari di ogni età insegnano l'italiano ai profughi stranieri

di Matteo Lunelli

C’è chi dice no, cantava Vasco. Un «no» detto (e fatto) dal presidente Fugatti e dalla Lega ai corsi di italiano per gli stranieri. E poi ci sono le associazioni, che hanno detto «no» a Fugatti e alla Lega, ma poi non sono rimaste con le mani in mano e sono andate avanti comunque, facendo rete e agendo nel “sottobosco”. Tra queste la scuola Penny Wirton, che per due volte alla settimana organizza lezioni per stranieri: volontari sono sia gli studenti sia i professori, mossi gli uni dalla voglia di integrarsi, di apprendere, di socializzare, e gli altri dallo spirito solidale e dalla consapevolezza che a un no si può rispondere in maniera concreta, civile e appassionata, senza fare troppo rumore, ma facendo e basta.
I prof hanno età, mestieri ed estrazione sociale differente: ci sono prof “veri”, ma anche studenti, professionisti, pensionati. Persone che dedicano qualche ora alla settimana al prossimo, senza volere nulla in cambio.
«Penny Wirton - spiega il coordinatore Luca Bronzini - è il protagonista di un romanzo per ragazzi di Silvio D’Arzo: era un ragazzo irlandese povero e disprezzato, che viveva in una condizione di marginalità, ma capace di ritrovare la propria dignità e il proprio riscatto grazie anche all’aiuto del supplente della scuola del villaggio. Nel 2008 Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi hanno fondato una scuola intitolandola proprio a questo personaggio, attiva da un anno anche qui a Trento, grazie alle aule messe a disposizione all’interno del convento dei cappuccini, in via Laste».
In questo anno più di 170 “alunni”, dai 16 ai 70 anni, di 47 nazionalità e con livelli diversi, da universitari ad analfabeti hanno partecipato alle lezioni, per un totale di più di 2000 ore.
«Ci siamo stabilizzati con gruppi tra le venti e le trenta persone e una quindicina di insegnanti: ci troviamo il martedì e il giovedì per due ore. Tra gli alunni ci sono siriani dei corridoi umanitari, brasiliani che vivono qui da anni, mogli di trentini, bandanti dell’est, pakistani arrivati dopo viaggi pazzeschi e studenti universitari. Alcuni con la sospensione dei trasporti gratuiti hanno qualche problema ad arrivare (la Lega ha tolto la tessera agli stranieri, favorendo invece i pensionati trentini ndr), ma chi inizia continua con entusiasmo a frequentare».
Ognuno ha le proprie motivazioni: alcune donne semplicemente saper leggere le etichette al supermercato, altri molto più banalmente (e drammaticamente) trovare un posto caldo e una mano tesa. Questa rete solidale, spontanea e per certi versi inaspettata, volendo rappresenta una seconda “vittoria” per chi ha detto «no»: si continua a fare quello che si faceva, però a costo zero, senza riconoscere nulla ai volontari.
«Potrebbe sembrare paradossale, è vero. Personalmente credo che il pubblico, la politica, dovrebbero investire in questo sia per rispondere a una necessità sia per costruire un ambiente favorevole ai processi di integrazione. Lasciamo perdere per un attimo l’aspetto umanitario: se diamo una mano a queste persone anche i loro figli cresceranno più felici e integrati. E poi un aspetto utilitaristico: la nostra popolazione è tremendamente vecchia. Badanti, raccoglitori di frutta, operai, sono tutti stranieri. E molte classi o squadrette di calcio giovanili sono in gran parte composte da stranieri: senza di loro non ci sarebbero certi campionati e ci rimetterebbero tutti i bambini».
Anche quelli trentini doc, quindi. Dire «no», forse, è facile ma poco utile.

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