Rivolta in carcere, ci sono 85 indagati

Per la rivolta nel carcere di Trento del 22 dicembre scorso ci sono 85 indagati. I detenuti, in parte dopo la sommossa trasferiti in altre carceri, hanno ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini. Le accuse contestate a tutti sono violenza a pubblico ufficiale e lesioni per i 10 agenti di polizia penitenziaria leggermente contusi o intossicati nel tentativo (vano) di riportare la calma all'interno del penitenziario. Alla protesta hanno partecipato soprattutto detenuti stranieri, in particolare maghrebini. Gli italiani ne sono rimasti fuori: sono solo 6 gli indagati. La procura ha individuato anche i presunti promotori della rivolta (accusati anche di incendio e danneggiamento) che sarebbe stata innescata dal suicidio del detenuto Sabri El Abidi: si tratta di una decina di detenuti, quasi tutti di nazionalità tunisina. 

Le indagini, condotte dalla Polizia penitenziaria, hanno ricostruito nei dettagli - attraverso le immagini delle telecamere di sicurezza, ma anche grazie alle testimonianze degli agenti stessi - le varie fasi della rivolta. Un primo gruppo, dopo aver saputo del suicidio, «manifestava, con battitura iniziata al piano terzo della sezione G, in forma non violenta». La protesta tuttavia «si trasformava, degenerava, sempre a partire dal piano terzo diffondendosi ai piani secondo e primo, in atti vandalici di danneggiamento ed incendio».  

La rivolta iniziava alle 8 e 30 nella sezione F al primo piano. Subito dopo detenuti della sezione G si univano alla battitura. Rapidamente la protesta degenerava: veniva appiccato il fuoco nel locale lavanderia della sezione e nella saletta ricreativa. 

Verso le 10 e 30 i detenuti con un'asta metallica spaccavano una telecamera del sistema di videosorveglianza della sezione. Altri si dedicavano ad abbattere altre telecamere, le plafoniere e le luci della sezione F. Nel frattempo F. M. «rompeva il dispositivo d'allarme antincendio che entrava così in funzione», mentre N. A. «rompeva i vetri delle finestre collocate vicino alla porta». Inoltre due detenuti «lanciavano vari oggetti in metallo in direzione degli agenti penitenziari».  

La rivolta si propagava rapidamente ad altre sezioni. Nella H due detenuti «appiccavano il fuoco ai bidoni della spazzatura depositati nella sala lavanderia». Nella sezione G un nutrito gruppo di detenuti «riversava nel corridoio oggetti della saletta ricreativa e la lavatrice della sala lavanderia». Altri detenuti «provavano a sfondare il cancello principale delle sezioni G ed F scagliando vari oggetti (bombolette di gas vuote, piatti, stoviglie di metallo) contro gli agenti minacciandoli di morte». La rivolta cresceva nei numeri. Altri aderivano alle violenze: «Tutti insieme portavano in prossimità materiale (calcetto, lavatrice, asciugatrice, bidoni della spazzatura e materassi) e alcuni di loro li incendiavano mentre altri legavano con delle lenzuola il cancello per evitarne l'apertura. C'era persino chi rompeva i vetri delle finestre e con l'idrante allagava la sezione ed il giro scale.  

Passiamo al terzo piano, sezione G, una delle più colpite dalla rivolta: veniva appiccato il fuoco a coperte, materassi ed altri oggetti «sicché si azionava l'allarme antincendio e si creava una gran confusione ed il fumo si propagava dappertutto», mentre A. S. «riversava il contenuto di un estintore addosso agli agenti penitenziari».  Intanto nel settore lavorazione i rivoltosi quasi uscivano all'aperto: «Utilizzavano un calcetto, appositamente trasportato dalla saletta ricreativa del secondo piano, per sfondare e aprirla». Il gioco veniva utilizzato come ariete per sfondare la porta blindata che affacciava sull'intercinta interno. Intanto con la manichetta dell'acqua veniva allagato il settore lavanderia. 
Nel settore trattamento un detenuto, dopo aver allagato gli ambienti, si barricava nell'aula di informatica e cercava di appiccare il fuoco; «quando l'agente (omissis) si avvicinava per invitarlo ad uscire, con un bastone rudimentale colpiva improvvisamente lo spioncino e, qualche momento dopo, sferrava un colpo attingendo l'agente al viso».  

Leggendo il capo di imputazione risulta evidente che ampie aree del carcere erano in mano ai rivoltosi che distruggevano, bruciavano, sfasciavano, lanciavano oggetti e pezzi di sanitari contro gli agenti. La situazione era potenzialmente esplosiva. Per fortuna decisiva è stata la mediazione condotta dal prefetto Sandro Lombardi, dal questore Giuseppe Garramone e dalla direttrice del carcere Francesca Gioieni che hanno convinto i rivoltosi a tornare pacificamente nelle celle, in parte devastate.  

A distanza di neppure due mesi dai fatti, la procura ha già chiuso l'inchiesta presentando il conto (penale) a 85 detenuti che aderirono alla rivolta. Per loro il rischio concreto è di vedere spostare parecchio in là il fine pena.

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