Edoardo Bauer, da 30 anni obiettivo su rally e Dakar

di Franco Gottardi

È tornato da pochi giorni dalla sua decima Parigi-Dakar. No, Edoardo Bauer (Dodo per gli amici), classe 1964, da Villamontagna, non è un pilota. Da trent’anni a questa parte fa il fotografo dei piloti, delle moto, delle macchine e dei camion che si sfidano su terreni impervi ai quattro angoli della terra. Unico italiano di una pattuglia di reporter free lance giramondo ha fatto delle sue grandi passioni, motori e fotografia, il suo lavoro.

Dodo, quando è iniziato il tutto?

Nel 1988. Ho sempre avuto una grande passione per le moto e ho iniziato a lavorare per una rivista, Mototrentino, che aveva la redazione a Trento. Dopo quattro anni mi sono dimesso ed ho iniziato la carriera da free lance. All’inizio con fatica perché dovevo trovarmi i clienti. Poi pian piano mi sono inserito e dopo trent’anni sono ancora qui.

Moto passione innata?

Direi di sì. Alle elementari assieme a un amico mi mettevo da parte le poche lire che mi capitavano in mano per comprarmi la mini moto della Fantic.

Dunque dal ‘92 free lance.

Sì. Il mio primo rally internazionale è stato nel 1994, il Nevada Rally.

Moto ma anche macchine?

Principalmente moto. Poi per 16 anni mi sono occupato dell’ufficio stampa dei Rally dei Faraoni, in Egitto, che era organizzato da una società italo-belga, e dunque mi dovevo occupare di tutto. È stata un’esperienza che mi ha permesso di coltivare diverse conoscenze nell’ambiente. Ma le due ruote sono e restano il mio pane.

Reporter e fotografo?

All’inizio sì, poi mi sono concentrato sulla fotografia. Lavoro soprattutto per le grandi marche e per i team. E collaboro con qualche rivista. Per sei mesi all’anno sono in giro per il mondo a seguire le varie manifestazioni.

Tra cui la Parigi-Dakar. Sei appena tornato dalla tua decima edizione giusto?

Giusto. Tutte seguite in Sudamerica dove la corsa si è spostata dopo che nel 2008 era stata annullata per i timori di attentati da parte di Al Qaeda che era presente nelle zone attraversate in Mauritania.

Certo è un po’ strano che una gara che si chiama Parigi-Dakar si svolga dall’altra parte dell’oceano.

Sì. Il nome è storico e non è stato cambiato. Ma banalmente gli organizzatori, una grossa società francese, oltre ad evitare i rischi hanno trovato in America governi pronti a sborsare un sacco di soldi per far passare la gara sul loro territorio, mentre in Africa i governi i soldi li chiedevano.

Non sarà però la stessa cosa per quanto riguarda i paesaggi e le difficoltà?

In realtà anche lì ci sono deserti e situazioni limite. Ci sono posti straordinari. Ora però girano meno soldi, non a caso l’ultima edizione, dopo 41 anni, si è svolta in un solo Paese, in Perù.

E come è andata?

Il Perù è bellissimo e la gara è stata durissima. Quest’anno c’erano solo dieci tappe e per creare la selezione le hanno fatte tutte veramente difficili.

È dura per i piloti. E per i fotografi?

È dura per tutti. Chiunque lavora alla Dakar dorme veramente poco ma noi fotografi battiamo tutti i record. Diciamo che si riposa tra le 2 e le 4 ore a notte. Siamo i primi a partire la mattina per posizionarsi sui punti strategici del percorso e gli ultimi a finire la sera, dopo aver selezionato tra migliaia di foto quelle buone da spedire ai clienti. Si lavora in condizioni estreme, in altura, al caldo. Non è una passeggiata.

Come vi muovete sul percorso?

In macchina. Io da qualche anno mi sono messo in società con un collega di Milano, Cristiano Berni, con cui abbiamo fondato l’Agenzia fotografica RallyZone. Poi con noi c’era un fotografo indiano che ci ha dato una mano.

Macchina messa a disposizione dall’organizzazione?

Magari! Da due anni ho adattato la mia vecchia Toyota Land Cruiser. Per essere ammessi lungo il percorso bisogna avere il rollbar e altri dettagli quasi da gara. La macchina la spedisco via nave da Le Havre verso il 20 di dicembre e la recupero in America prima della partenza il primo gennaio.

Com’è il lavoro? Sempre in cerca della foto perfetta? Ti senti più artigiano o artista?

Si cerca sempre la qualità anche se obiettivamente in questi frangenti bisogna lavorare anche di quantità. Diciamo che avere foto artistiche alla Dakar è più facile perché di solito aiuta molto l’ambiente. Poi è questione di luce e di piedi. Nel senso che, specie nel deserto dove non ci addentriamo troppo con la nostra macchina perché sarebbe troppo rischioso, per trovare la postazione migliore si fanno chilometri a piedi. Quest’anno mi è capitato di scalare una duna con un dislivello che sarà stato di 500 metri; ho camminato per un’ora e mezzo per arrivare in cima dove passavano i concorrenti.

Ti è capitato di dire: «Ecco, ho fatto lo scatto perfetto»?

Non alla Dakar. Lì hai ritmi talmente elevati che non ci puoi stare tanto a pensare. È molto più facile in altri rally, tipo ad Abu Dhabi, o in Cile. Dove si conoscono già ambiente e percorsi, sai dove trovare i posti migliori e ci sono scatti che veramente ti soddisfano anche dal punto di vista emozionale.

Quanti rally in un anno, quanto tempo lontano da casa?

Per sei mesi all’anno sono in giro per il mondo. Adesso sono appena tornato dal Perù, tra 15 giorni andrò in Qatar. Quest’anno seguiremo anche una nuova gara tra Siberia, Mongolia e Cina, paragonabile a un’altra Dakar per la lontananza e la logistica complicata. Poi Cile, Marocco e avanti così.

Qual è il bello di questo lavoro?

Il fatto di entrare in contatto con culture diverse. A me piace molto conoscere, approfondire le tradizioni, la gastronomia, interagire con la gente del posto.

Ma c’è il tempo per farlo?

Alla Dakar poco. Ma in Argentina, ad esempio, dove c’è tantissimo pubblico, quando sanno che sei italiano ti fermano, iniziano a parlarti, si intrecciano un sacco di relazioni e amicizie.

E l’ambiente dei rally com’è?

È piacevole soprattutto tra i motociclisti. Nonostante le rivalità in gara sono tutti amici. Ridono, scherzano, si fanno battute. C’è la regola base che se qualcuno cade quello che arriva dopo si ferma ad aiutare, anche se sta battagliando per vincere.

Certo da quando hai iniziato, 30 anni fa, è cambiata totalmente anche la fotografia con le nuove tecnologie.

Assolutamente sì. Il digitale ha cambiato tutto. Il modo di fare le foto ma per quanto mi riguarda anche il modo di spedirle. Ricordo che era il 2001 e al Rally dei Faraoni un amico mi aveva fatto provare una Coolpix Nikon digitale; poi avevo spedito via modem una foto e il giorno dopo era stata pubblicata su una rivista. Incredibile per l’epoca. Fino ad allora si scattavano foto su pellicole da 36 e, all’epoca collaboravo con il settimanale Motosprint, si spedivano tramite piloti dell’Alitalia o in altri modi fortunosi. Arrivate le pellicole in redazione a Bologna venivano sviluppate e pubblicate, molti giorni dopo. Adesso volendo, grazie anche all’avvento di internet, una foto appena scattata la mandi in tre secondi dall’altra parte del mondo.

Molto meglio ora?

Ci sono i pro e i contro. Adesso anche i clienti vogliono tutto subito. Bisogna gestire migliaia di scatti per decine di clienti e scegliere e archiviare è diventato un lavoraccio, lungo e complicato.

Dopo tanti anni la passione è ancora intatta o si è affievolita?

Senza la passione questo lavoro non si potrebbe fare. I ritmi sono bestiali e per i dieci giorni di gara ti sostiene solo l’adrenalina. Io continuo a considerarlo per certi versi il lavoro più bello del mondo perché mi permette di viaggiare, di immergermi in culture diverse, di conoscere tanta gente, di mantenermi anche in forma visti gli sforzi fisici. Spero di poterlo fare ancora per molti anni.

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