La piccola Sofia Zago uccisa dalla malaria Inchiesta: la procura chiede l'archiviazione

di Sergio Damiani

La procura di Trento ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale aperto in seguito alla morte di Sofia Zago, la bimba di Trento stroncata dalla malaria il 4 settembre del 2017.

A conclusione di un anno di indagini minuziose condotte dal Nas, di consulenze medico legali, di approfondimenti scientifici a più livelli, di testimonianze raccolte tra tutte le persone presenti in reparto nei giorni di ricovero della piccola Sofia, il pm Marco Gallina si è dovuto «arrendere».

O meglio il magistrato è arrivato alla conclusione che, se da un lato è stata raggiunta la prova che il contagio avvenne all’ospedale Santa Chiara (e infatti l’Azienda sanitaria ha già risarcito la famiglia), non c’è invece prova certa ed univoca che a provocare, involontariamente, il contagio sia stata l’infermiera del reparto di Pediatria finita sotto inchiesta su un’ipotesi di omicidio colposo. La donna, assistita dagli avvocati Alessandro Melchionda e Giuliano Valer, sentita in più occasioni dagli inquirenti, ha sempre respinto l’accusa sottolineando di aver utilizzato per i prelievi di sangue solo materiale monouso e nel pieno rispetto dei protocolli.

Alla fine il pm è arrivato alla conclusione che - come sostiene anche la difesa - non sia possibile escludere delle ipotesi alternative sulle modalità del contagio. In sostanza, le fonti di prova raccolte non consentono di individuare con il grado di sicurezza richiesto dalla  giurisprudenza della Cassazione l’ipotetico colpevole.

La procura è riuscita comunque ad inquadrare con notevole precisione il momento del contagio. Il 17 agosto del 2017 Sofia Zago, 4 anni, era ricoverata in Pediatria per un esordio di diabete. Il contatto ematico sarebbe avvenuto proprio quella mattina. Dalle cartelle cliniche emerge che quel giorno in Pediatria vennero fatti nove prelievi del sangue, compresi quelli di Sofia e della bimba affetta da malaria del ceppo falciparum.

La procedura, che prevede per queste operazioni materiale monouso, previene i  rischi ma non garantisce contro possibili errori. Di prassi ai bambini al momento del ricovero viene inserito l’ago-cannula per l’eventuale somministrazione di terapie, per flebo o prelievi del sangue. Il contagio forse è avvenuto proprio attraverso quest’ultima operazione: dopo il prelievo, l’ago-cannula potrebbe essere stato pulito con  una siringa di soluzione fisiologica utilizzata prima per la bimba africana infetta e poi per Sofia. Un’ulteriore ipotesi di errore umano è legata ad un possibile doppio utilizzo di un guanto usa e getta. Perché il parassita della malaria venga trasmesso da un soggetto infetto ad uno sano basta una quantità minima di sangue, invisibile all’occhio.
L’inchiesta - non poteva essere altrimenti - in mancanza di prove storiche su cui fondare l’accusa  è andata avanti ad excludendum.

All’inizio sono state accantonate le ipotesi più suggestive ma anche remote, come la zanzara trasportata in valigia o il contagio al campeggio di Bibione da parte di una ipotetica zanzara anophele autoctona. Ma ben presto gli accertamenti del Nas hanno stretto il cerchio intorno al reparto di Pediatria del Santa Chiara dove Sofia fu ricoverata dal 16 al 20 agosto. Arriviamo così alla mattina di quel 17 agosto, al prelievo di sangue, al possibile utilizzo per errore di un dispositivo  sanitario (forse il guanto) già usato per trattare la bambina del Burkina Faso.

Ma in quelle stesse ore era presente anche un’altra infermiera e non si può escludere con certezza un suo intervento. Inoltre c’è un altro scenario alternativo tracciato dalla difesa nella sua articolata memoria: le bambine potrebbero essere entrate in contatto ematico anche da sole. La piccola Sofia aveva le dita delle mani segnate dagli aghi pungidito mentre la bimba del Burkina Faso aveva avuto ripetuti episodi di epistassi (cioè perdita di sangue dal naso). È improbabile che sia questo il meccanismo del contagio, ma non si può escludere del tutto. L’impianto accusatorio a carico dell’infermiera indagata è dunque indebolito da ipotesi alternative, remote ma impossibili da elidere. È questo il ragionamento che ha indotto la procura a chiedere l’archiviazione del procedimento penale per la morte di Sofia. La parola ora passa al giudice.

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