Volontario di pace nelle Filippine Pietro Scartezzini, a fianco degli indigeni

di Daniele Benfanti

Pietro Scartezzini compirà trent'anni a settembre. È di Trento, quartiere Bolghera. Da due settimane è tornato dopo un anno trascorso nelle Filippine. È stato il primo trentino a far parte del Corpo civile di pace. Una nuova figura di giovani volontari (analoga al servizio civile all'estero), sul modello dei Pace Corps americani, prevista da una legge del 2013 e sperimentata dal 2017. I primi giovani coinvolti, un centinaio in tutta Italia (cinquecento a pieno regime), sono stati impegnati in dodici aree a rischio di conflitto o post-conflitto in tutto il mondo. Dalla Bolivia alla Bosnia, dal Kosovo alla Tanzania, dalla Giordania all'Equador, da Haiti alla Guinea Biassau. I progetti che hanno richiesto l'intervento dei volontari dei Corpi civili di pace sono stati presentati da organizzazioni ed enti impegnati nel campo dei diritti umani, della cooperazione internazionale, delle emergenze ambientali, della pace e della solidarietà. Stasera alle 18, alle Acli di Trento (sede di via Roma 57, sala Pizzolli) Pietro racconterà la sua esperienza nell'incontro intitolato «Le Filippine di Duterte». Un arcipelago di più di settemila isole abitato da oltre cento milioni di abitanti. A introdurre l'incontro Giuliano Rizzi, presidente Ipsia del Trentino. 

Pietro, che percorso di formazione ha seguito prima di questa esperienza nelle Filippine?
Mi sono laureato in Giurisprudenza a Trento e ho fatto sei mesi di Erasmus a Treviri, in Germania. Poi, grazie a un premio di merito, ho fatto un master in Olanda in Diritto internazionale e diritti umani. Al quale sono seguite due esperienze di summer school: una a Rio de Janeiro sui global challenges (le sfide globali: le migrazioni, l'ambiente, i diritti umani fondamentali) e uno in Irlanda, sul ruolo della Corte penale internazionale nei confronti dei criminali di guerra. Ho poi iniziato l'attività lavorativa vera e propria nel campo dei diritti umani con un tirocinio con una Ong impegnata nelle Filippine, per quattro mesi. Poi sono stato in Germania, al centro europeo per i problemi delle minoranze e a Ginevra, all'Onu, dove ho collaborato per tre mesi con l'Alto Commissariato per i Diritti umani. A Strasburgo al Consiglio d'Europa e a Roma con «Save the children».
La tua esperienza nelle Filippine dove si è concretizzata dal punto di vista geografico?
Ero a Panay Island, un'isoletta nella regione delle Visayas, nelle Filippine Centrali. Il comune di Roxas City ha circa 200.000 abitanti. L'intera regione circa 6-700.000. La sua posizione geografica ne fa una delle zone più esposte ai tifoni. Nel mio anno di permanenza ne ho sperimentati tre consecutivi. Tra dicembre e gennaio. Non era nemmeno la stagione dei tifoni, che va da maggio a ottobre. Segno dello scompiglio creato dal cambiamento climatico. Per fortuna nella mia zona i venti non sono stati troppo forti, ma alcuni villaggi vicini sono stati distrutti e ci sono state vittime.
Perché proprio nelle Filippine il tuo impegno con un progetto del Corpo civile di pace?
Mi sono occupato di un programma di sensibilizzazione sui diritti umani e sullo sviluppo gestito dalla Caritas a partire dal devastante tifone Jolanda del 2013, che causò oltre ottomila morti. Ho avuto il compito di monitorare lo stato di avanzamento e il corretto impiego dei fondi nei progetti avviati, valutare il rifinanziamento, rilevare eventuali errori o possibilità di miglioramento.
In particolare di che progetti si tratta?
Di sviluppo agricolo e allevamento. Molti abitanti di queste zone vivono di economia di sussistenza. Si tratta soprattutto di gruppi indigeni. Nelle Filippine ci sono 170 idiomi diversi. Gli indigeni sono quasi sempre emarginati, lasciati in disparte. In collaborazione con filippini dei villaggi rurali ho presentato occasioni di microcredito e microimprenditorialità, secondo la modalità dei «self help group» e la risposta è stata molto buona.
Qual è la situazione economica e politica, nelle Filippine di oggi, da due anni in mano al nuovo presidente Rodrigo Duterte?
La povertà nelle Filippine non è schiacciante, come in Africa o in India. A parte le baraccopoli di Manila. Ognuno riesce a campare, bene o male, con piccolo allevamento e pesca. Le condizioni sanitarie sono precarie. Dal punto di vista politico l'isola meridionale di Mindanao è considerata a rischio dalla Farnesina. C'è il conflitto aperto tra governo e ribelli comunisti maoisti e con gli islamisti. Ho girato parecchio il resto del Paese. Duterte ha fatto della lotta alla droga una bandiera. Colpendo soprattutto i consumatori. Dice che fanno danno a sé e agli altri. I suoi metodi sbrigativi hanno portato alla presenza di forze paramilitari, brutali repressioni spacciate per morti accidentali, a una forte riduzione della libertà di stampa. La corruzione è un male endemico e la popolazione si sente tradita dalle famiglie, sempre le stesse, che detengono potere economico e cariche amministrative in questi trent'anni del dopo-Marcos: gli Aquino, gli Arroyo, gli Estrada, gli Ayala.
Cosa ti ha colpito in positivo?
La tolleranza nei confronti degli orientamenti sessuali. La libertà di dichiararsi omosessuali. Quasi un paradosso.
Consiglieresti un viaggio nelle Filippine?
Senza dubbio. È un Paese splendido. Con zone incontaminate. Mare stupendo, barriera corallina, squali-balena, tartarughe giganti, vulcani. La cultura locale è interessantissima. Le città invece non hanno il fascino e i monumenti di quelle vietnamite o thailandesi.

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