Si uccise a 22 anni, ipotesi bullismo Due indagati per istigazione al suicidio

Per Pietro, un ragazzo solare dipendente di un magazzino della frutta, recarsi al lavoro era come andare «in guerra». Anche l’ultimo giorno della sua vita troppo breve, quando salutò genitori e sorella prima del suo turno, tornò a ripetere la frase che testimonia l’abisso di angoscia in cui era precipitato: «Ecco, andiamo in guerra...». Una guerra in cui Pietro (il nome è di fantasia) non è sopravvissuto, morto a 22 anni per quello che potrebbe essere un caso di bullismo sul lavoro dalle conseguenze letali.

Sull’assurda, inquietante, morte di Pietro, la procura di Trento ha aperto un procedimento penale che vede indagati per istigazione al suicidio il caposquadra (difeso dal’avvocato Stefano Daldoss) e il direttore del magazzino (difeso dall’avvocato Paolo Demattè). Per due volte la procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo per ragioni di diritto più che di fatto.

Dagli atti d’indagine emerge che il povero Pietro viveva una situazione pesante sul posto di lavoro, redarguito, tartassato, persino cronometrato nell’esecuzione di alcune sue mansioni. Non sarebbero emerse invece vessazioni fisiche, ingiurie o discriminazioni. Per la procura non ci sono elementi sufficienti per integrare il reato di istigazione al suicidio (manca il dolo), ma anche gli altri reati prospettati dall’avvocato Paolo Chiariello, legale della famiglia del ragazzo morto, che si è opposto all’archiviazione chiedendo di procedere per atti persecutori, maltrattamenti aggravati dalla morte, morte come conseguenza di altro reato. Sarà ora il giudice a decidere il destino del procedimento penale. Comunque vada, il dramma di Pietro rimane un monito: sul lavoro, come nella vita, le parole possono essere pietre.

Il ragazzo morì in una giornata di primavera dell’anno scorso. Il suo non era un suicidio come altri. La conferma viene dagli stessi carabinieri che avviarono subito delle indagini per chiarire il contesto in cui era maturato il dramma. Il giovane operaio non lasciò uno scritto in cui spiegava le ragioni di un gesto così estremo. Per capire cosa abbia spinto Pietro a farla finita a soli 22 anni bisogna ricostruire le sue ultime settimane di vita.

Il giovane aveva delle difficoltà sul luogo di lavoro. Si sentiva preso di mira dal suo caposquadra (di cui era il vice), persona che anche altri testimoni descrivono come irascibile, burbera e dalla bestemmia facile. L’opposto di Pietro che invece era un ragazzo riservato, timido, incapace di difendersi.

Di tutto ciò agli atti delle indagini ci sono testimonianze indirette (cioè familiari e amici con cui il ragazzo si era confidato) ma anche dirette (colleghi che, pur con qualche ritrosia e reticenza, hanno testimoniato). La situazione pare sia peggiorata dopo che Pietro, in ferie, aveva partecipato ad un viaggio con la parrocchia. «Al ritorno - ha raccontato il padre del ragazzo - era stato rimproverato dal suo caposquadra. Per questo non dormiva di notte. Mi ero rivolto al nostro medico che gli aveva prescritto un sonnifero».

La madre ha riferito che Pietro a casa raccontava di essere sotto pressione sul lavoro, addirittura cronometrato. Il giorno in cui si tolse la vita la sorella lo vide «particolarmente turbato, affranto e dispiaciuto». Agli amici Pietro aveva raccontato che il capo «si arrabbiava per un nulla», ma anche di essere statto trattato male e preso in giro. Ad un collega che invitava il giovane operaio a reagire e a non dare troppo peso alle sfuriate del superiore, Pietro rispondeva di non avere un carattere forte come l’amico. Vaso di coccio tra vasi di ferro, Pietro - lo immaginiamo sopraffatto dall’angoscia, ormai incapace di confidarsi con chi gli voleva bene - si spezzò.

Investito del caso dalla famiglia delle vittima, il professor Roberto Tatarella - medico e docente universitario, considerato il massimo esperto di suicidiologia in Italia - dopo aver studiato atti d’indagine e documentazione sanitaria è arrivato a conclusioni che fanno riflettere: sussistono alte probabilità che il grave disagio psicologico manifestato da Pietro sia correlato a «bullismo sul posto di lavoro».


 

«Un ragazzo d’oro, il suo ricordo ci accompagnerà per sempre».

È passato ormai quasi un anno dalla tragedia, ma a casa della vittima quell’ultimo, terribile giorno di vita di Pietro (il nome è di fantasia) lo ricordano ancora bene: «Era preoccupato - ci racconta il padre - era un venerdì e avrebbe dovuto comunicare al caposquadra che l’indomani non sarebbe andato al magazzino perché doveva restare con me per fare dei lavori di potatura in campagna. Quando uscì disse che andava alla guerra. Fu l’ultima volta che le vedemmo in vita».

La famiglia di Pietro è convinta che il ragazzo si sia tolto la vita perché non sopportava più la pressione sul lavoro: «Nelle ultime settimane - ricorda il padre - la situazione era peggiorata. Il ragazzo faceva fatica a dormire per l’agitazione. Così andai dal medico di base che prescrisse delle pastiglie per favorire il sonno. Ma la sua agitazione rimeneva. In risposta al suo disagio gli proposi di andare a parlare al magazzino, gli suggerii anche di cercare un altro lavoro che non avrebbe certo avuto difficoltà a trovare». Pietro cercò di tenere duro, ma non arrivò al termine del suo contratto.

Ora i familiari non chiedono vendetta ma giustizia: «Ci aspettiamo - dice il padre del ragazzo - che sia fatta piena chiarezza su quanto successo, mi auguro che chi sa parli».

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