Botte, divieti, umiliazioni Padre padrone condannato

di Flavia Pedrini

La severità, per molti genitori, è la bussola da seguire nell’educare i figli. Ma in questo caso, il comportamento di un genitore, avrebbe travalicato il confine della fermezza, per sfociare in un vero e proprio maltrattamento nei confronti della figlia adolescente, costretta a vivere in un clima di violenze, divieti, umiliazioni e repressione. Sottoposta a «diktat» rigorosi in materia di trucco e frequentazioni e perfino obbligata - secondo la procura - ad affrontare una visita ginecologica che ne accertasse la verginità.

Si è concluso con una condanna a tre anni di reclusione, più di quanto aveva chiesto il pm (2 anni), il processo a carico di un sessantenne trentino, un padre «padrone» secondo l’accusa. L’uomo, imputato per maltrattamenti in famiglia, è stato inoltre condannato dal giudice Giuseppe Serao a risarcire la figlia, che si è costituita parte civile con l’avvocato Chiara Pontalti, per i danni subiti, da quantificarsi in separata sede civile e al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di 10.000 euro, oltre alle spese di costituzione.

La vicenda finita in tribunale, successa in una valle, si sarebbe svolta quantomeno tra il 2013 e la primavera del 2015, quando la vittima era un’adolescente, tra i 14 ed i 16 anni. Un periodo spesso segnato dalla conflittualità fra genitori e figli e dalle incomprensioni. Difficile dire se la condotta contestata all’imputato nascesse dalla incapacità di rapportarsi con la ragazzina. Il padre si sarebbe difeso sostenendo di avere agito per il bene della figlia, per proteggerla.

Ma il lungo capo di imputazione racconta una «verità» diversa: i metodi educativi adottati dal genitore sarebbero invece sfociati in una condotta illecita, al punto da procurargli una denuncia per maltrattamenti. La ragazza, all’epoca minorenne, aveva infatti trovato il coraggio di confidarsi con un insegnante, che aveva colto la sua sofferenza, e poi con la preside. Il Tribunale dei minori sospese il padre dalla responsabilità genitoriale, provvedimento - come ha evidenziato la parte civile - che l’uomo non ha mai chiesto venisse revocato (la ragazza vive in una struttura protetta).

Le contestazioni, come detto, sono numerose e tutte nel solco di una privazione della libertà, delle umiliazioni e di un controllo ossessivo. La ragazza, secondo l’accusa, era infatti obbligata a vestirsi con capi scelti dal padre ed aveva il divieto di truccarsi. Anche l’acconciatura doveva essere prima approvata dall’uomo e l’uso degli occhiali da sole, come del cellulare, vietato. Divieti che, se ignorati, avrebbero procurato alla ragazzina percosse. Anche la sua vita sociale sarebbe stata azzerata: niente amicizie con ragazzi di sesso maschile o con coetanei non italiani, niente uscite di casa se non per andare a scuola, dove la accompagnava il papà, niente attività sportiva. Pur di non perdere di vista la ragazzina il padre sarebbe arrivato al punto di costringerla a seguirlo sul posto di lavoro, fino a tarda notte.

Ma l’uomo avrebbe addirittura costretto la figlia a sottoporsi ad accertamenti medici: dal test delle urine imposto per assicurarsi che l’adolescente non assumesse droghe, alla visita ginecologica, affinché venisse accertata la sua verginità.
 Si può facilmente immaginare l’effetto che questo comportamento ebbe sulla vita di un’adolescente, privata di ogni relazione sociale, costretta a subire mortificazioni e violenze psicologiche. Ma ai divieti e al controllo ossessivo da parte del padre si sarebbe aggiunta anche la violenza fisica: sono vari gli episodi di percosse contestati, anche con contusioni giudicate guaribili in una settimana. In una circostanza, inoltre, il genitore avrebbe minacciato la ragazza di tagliarle i capelli, per evitare che perdesse tempo in bagno. Alla fine, come detto, per l’uomo è arrivata la condanna. Scontato l’appello.

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