È morto a Parigi il pittore Paolo Vallorz: un maestro

di Franco De Battaglia

È morto ieri a Parigi Paolo Vallorz, il grande pittore. Aveva 86 anni. La sua arte, con profonde radici nel Trentino, nella sua Val di Sole e nella montagna, aveva raggiunto una dimensione internazionale nella post-modernità, reinterpretando i volti dell’uomo e il corpo della donna dopo le stagioni dell’astrattismo, recuperandone la profonda, spesso tragica, disperata verità. Parigi era lo scenario su cui, a partire dagli anni Cinquanta, aveva «innovato» non solo uno stile d’arte, ma una «funzione  per l’arte», con mostre che erano spaziate da New York alla «Tate» di Londra, da Milano a Zurigo, fino alle Albere e al Mart, che ne conserva una donazione preziosa.

Con Giacometti, Soutine, Bacon, Lucian Freud… aveva inseguito un nuovo modo di vedere, di guardare l’umanità, senza mai dimenticare la lezione concreta e tattile, non intellettualistica che viene dalla natura. È la natura che insegna a capire come il segreto della vita – e la sua verità – stia nelle cose semplici, umili: una mela bacata, un fungo appena raccolto, un grande albero che sembra umano, un animale braccato, un barbone abbandonato. O la nudità quasi sacra di una donna che assieme a un’anima di  bellezza mostra le ferite di una vita. La pittura di Vallorz ha anche insegnato a vedere in una nuova dimensione la montagna di casa (la sua Bolentina!) con la capricciosa creatività della luce che di ora in ora la fa mutare, la montagna che proprio nella sua dinamicità di forme racchiude un mondo di libertà. In questa dimensione forse nessun artista  del Novecento ha saputo interpretare più di Paolo Vallorz  l’identità profonda della terra trentina, che custodisce la sua natura, il lavoro dei suoi uomini, ma non è localistica, è aperta al mondo, è curiosa del mondo, vuole vedere, essere, partecipare. Non ostentare.

Così era anche Vallorz. A vent’anni era andato a Parigi perché gli studi a Trento e l’Accademia a Venezia gli andavano stretti, ma poi era sempre ritornato e, nella sua valle, aveva fatto rivivere i legami fondamentali, sempre più  necessari  fra arte e artigianato, avviando ai rischi e alla creatività di pittura e scultura un’intera generazione di giovani, una sorta di «scuola solandra», dove l’arte serve a rendere più bella e significativa la vita, non solo a esprimere se stessi: Albino Rossi, Luciano e Ivan Zanoni, Mauro Pancheri, Misseroni, il grande falegname Baggia…

Parimenti Vallorz aveva saputo intessere, attorno alla sua casa di Caldes, la casa di suo padre, fabbro del paese, che egli aveva ricomperato con  i proventi dei suoi primi quadri, una rete di amicizie schiette, anche internazionali, amicizie non pubbliche relazioni, da Gianni Faustini, che fu tra i primi a capirlo e scoprirlo, a Giovanni Testori, ad Alberto Cavallari, a Raffaele De Grada, a Jean Clair, dell’Accademia di Francia, a Pepiat, al grande collezionista Guerin.
Paolo Vallorz è mancato ieri mattina. Aveva trascorso l’estate a Caldes, dove era nato il 3 agosto 1931 e dove arrivava ad ogni primavera, come le rondini. A ferragosto aveva accusato i primi disturbi, ed era stato trasferito a Parigi, dove vive il figlio Nicolas, per accertamenti. Aveva promesso agli amici che sarebbe ritornato al più presto. Invece il male era progressivo, e Paolo Vallorz non è tornato. Ha trascorso questi pochi mesi nella sua casa di Parigi, dove aveva lo studio, fra i suoi dipinti fino a domenica, quando una crisi che tutti ritenevano superabile l’ha aggravato. Ieri è spirato.

Vallorz ha avuto una vita intensa e avventurosa, segnata però da una profonda coerenza: quella di un pittore che non dipinge per rappresentare, ma per «entrare» lui stesso nella realtà che esprime, per appropriarsene quasi: un volto, una donna, un albero, un cielo (e sono straordinarie le sue ultime stagioni di grandi alberi e cieli dipinti). Più volte nella sua vita smise improvvisamente di dipingere (ma continuò, diligentemente a disegnare), spesso quando era al massimo del successo e della fama. Lo fece a Parigi, quando si mise a costruire un’automobile da corsa (quasi una profezia di pop-art?) lo fece negli anni Ottanta, quando si dedicò all’artigianato solandro con gli appuntamenti a Le Contre. Perché? Glielo chiedemmo una volta: «Perché – ci disse – stavo di nuovo inciampando nelle teorie».
Così era Paolo Vallorz. Vita, non teoria. Addio.

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