Psicologi per i popoli per superare i traumi

In allerta da mercoledì una cinquantina di professionisti trentini, coordinati da Luigi Ranzato

di Marica Viganò

Sono in cinquanta e 35 di loro pronti a mobilitarsi subito. Sulla carta hanno un preavviso di sei ore per organizzarsi e partire per i borghi del terremoto; di fatto per loro l'allerta è scattata all'alba di mercoledì, quando l'intera macchina della protezione civile trentina si è messa al lavoro. Sono i professionisti dell'associazione di volontariato «Psicologi per i popoli», che a livello locale è convenzionata con la Protezione Civile della Provincia di Trento ed a livello nazionale fa parte della Federazione Psicologi per i popoli, oltre che essere parte - per estensione - della Protezione civile nazionale. 


La partenza, prevista per la nottata di mercoledì, è stata rinviata. «Motivi legati all'organizzazione complessiva dell'intervento - spiega il dottor Luigi Ranzato, presidente dell'associazione Psicologi per i popoli del Trentino - siamo legati alla colonna mobile della Protezione civile di Trento, ma in caso di urgenze raggiungiamo i luoghi dell'emergenza in maniera autonoma. Al momento stanno intervenendo altri nostri colleghi della Federazione delle associazioni Psicologi per i popoli, dall'Umbria, dal Lazio e dall'Abruzzo. Le forze in campo sono sufficienti». 
Dottor Ranzato, è possibile che venga richiesto un vostro intervento nei prossimi giorni, quando l'emergenza sarà ormai cessata?
«Sì e sarà anche il periodo più delicato. Come è stato nell'esperienza dell'Abruzzo e dell'Emilia Romagna, è nella gestione della vita delle tendopoli e nei centri di accoglienza che il trauma emerge in maniera più forte. È molto importante esserci in queste fasi, perché si passa da una reazione immediata traumatizzante ad una situazione di dolore e di sofferenza del ricordo, perché ci sono molte perdite: la casa, gli averi, ma soprattutto i propri parenti, i paesani, senza dimenticare gli aspetti legati alla cultura, a quelli affettivi, al proprio ambiente, alla chiesa, al comune. Noi siamo sempre disponibili ad intervenire per un aiuto diretto ed indiretto, dal sostegno ai colleghi psicologi ed ai soccorritori, all'aiuto alle persone coinvolte nel dramma. Stiamo organizzato un eventuale turn over. All'Aquila i turni erano di 7 giorni, in Emilia Romagna di 4. Il turn over è essenziale perché il lavoro sia efficace: è dura lavorare in certe situazioni, per il contatto con la sofferenza oltre che per il contesto fisico in cui si vive». 
Quando si interviene per un aiuto psicologico alle persone coinvolte nel dramma ci sono priorità? I bambini, ad esempio, sono i primi ad essere seguiti dagli specialisti?
«Abbiamo definito i luoghi di intervento, che corrispondono ad altrettante priorità, dai posti medici avanzati a contatto con persone che non riescono a reggere l'emozione, agli obitori in cui avviene il riconoscimento delle salme, ai centri di prima accoglienza, dove il nostro lavoro si integra con le risposte a bisogni primari: avere un luogo dove ripararsi dal freddo e la pioggia, una struttura che dia accoglienza per la notte, e poi la mensa, le toilette. È importantissimo avere atteggiamenti di accoglienza, di tenerezza, di rispetto, di pazienza, perché attraverso risposte ai bisogni primari le persone riprendono a ricostruire la quotidianità. Poi nel tempo ci sono tanti altri aspetti da recuperare: per i bambini è la scuola, per le persone è il lavoro e il ripensare alla propria casa». 
La cronaca racconta di bambini feriti, di piccoli estratti miracolosamente vivi dalle macerie ma che hanno perso i fratellini o i genitori. Cosa si può fare per loro?
«Nei primi tempi è importantissimo non separare i bambini dai parenti o da mamma e papà. I bambini hanno meno traumi se hanno genitori o familiari che stanno loro vicino. Poi cominciano ad essere aiutati ad esprimere i loro sentimenti attraverso giochi, disegni, narrazioni, attraverso anche la drammatizzazione».
Quali sono state le criticità maggiori incontrate nei vostri interventi nelle zone terremotate dell'Aquila e dell'Emilia?
«Sappiamo che di fronte ad una emergenza come questa c'è un'evoluzione temporale, che è stata descritta quasi scientificamente. C'è la prima fase, la "fase eroica", dove le energie dei sopravvissuti che si accompagnano a quelle dei soccorritori danno molta forza. Poi c'è la "fase della luna di miele", quando c'è una grande comunicazione e collaborazione con i soccorritori. Dura circa una settimana. Poi comincia la fase più difficile: si inizia a realizzare che passeranno mesi o anni per riprendere la propria abitazione, il proprio paese, il proprio lavoro, i propri amici. Questa è la fase più difficile, dove si esprime la rabbia, ma anche la contrarietà, la poca collaborazione. Le primissime fasi sono per certi versi le più facili, con i soccorsi e la macchina della protezione civile che garantisce un luogo in cui poter stare al sicuro, i pasti, l'assistenza di tipo sanitario e psicologico, la possibilità per i bambini di avere spazi ludici».
Nella fase successiva è possibile che si creino tensioni legate anche alla convivenza forzata tra chi non ha più una casa, uno spazio intimo? 
«Sì, nei primi giorni le persone accettano di dormire dove viene loro indicato, poi spetta all'organizzazione mettere assieme i nuclei familiari. Si è chiamati a rispondere a bisogni difficili e la popolazione, da parte sua, deve sapersi adattare. Usiamo la parola resilienza come metafora psicologica: le persone devono essere resilienti, capaci di ritrovare nuove forze dopo la tragedia. Dopo le prime fasi di accoglienza, fasi in cui le vittime del trauma sono più passive, il lavoro psicologico prosegue nell'attivare le energie affinché le persone diventino non assistiti, ma collaboratori loro stessi dei propri familiari, del proprio gruppo. Non bisogna solo attendere, perché questo può portare alla depressione».

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